Yokoi ha una intuizione: utilizzare i cristalli liquidi per creare dei giochi elettronici semplici e divertenti, oggetti economici che la gente può portare in giro senza preoccuparsi troppo, basati su tecnologie consolidate: i Game & Watch.
Questi semplici giochi portatili sono la pietra angolare su cui Nintendo inizierà a costruire il suo impero portatile (si parla di oltre 40 milioni di pezzi venduti) e grazie a loro Yokoi inventerà un elemento fondamentale per i videogiochi: la croce direzionale. Arriverà poi il NES e il suo enorme successo mondiale e Yokoi ne fu parte, contribuendo allo sviluppo di titoli fondamentali come Metroid e Kid Icarus, ma nel 1987 la sua mente si mise a lavoro per rispondere una domanda: i Game & Watch sono carini, ma limitati, come potremmo rendere portatili dei giochi veri e propri con una console studiata appositamente?
Fino a quel momento c’erano stati esempi di console portatili, ma le tecnologie non permettevano di ottenere grandi risultati, i costi erano alti e di conseguenza il fiasco era un rischio concreto. Yokoi si mise dunque all’opera insieme a un suo fidato collaboratore Satoru Okada nella divisione Ricerca e Sviluppo di Nintendo. Okada iniziò puntando in altro con prototipi spettacolari, dotati di schermi ricchi di colori, ma visto che squadra che vince non si cambia, Yokoi rimase fedele alla sua strategia di progettazione: un prodotto che non rappresentasse il meglio che la tecnologia potesse offrire, ma qualcosa di solido, poco costoso e collaudato in cui le caratteristiche più importanti dovevano essere i giochi e la durata della batteria. Non importa quanto Okada si lamentasse di dover “imbruttire” i suoi prototipi, Yokoi era certo che il game design avrebbe reso bellissima quella matrice di punti monocromatica e verdognola.
Il 21 aprile del 1989 il Game Boy debuttò in Giappone, al suo interno c’era un processore Z80 Sharp modificato, 8 kB di RAM, suono con 4 canali stereo, a un solo altoparlante, display LCD da 160 X 144 pixel con 4 gradi di grigio e quattro stilo che garantivano 36 ore di autonomia. Lo schermo non era illuminato, quindi o ci giocavi di giorno, o sotto una fonte di luce o in viaggio dovevi sperare in una fitta schiera di lampioni. Il nome in codice era DMG-o1, che voleva dire Dot Matrix Game, ma che per alcuni dipendenti Nintendo particolarmente dubbiosi diventò “DameGame” ovvero “Gioco senza speranza”, oggi nessuno ammetterebbe mai di averlo chiamato così.
Per accompagnare il Game Boy Nintendo schierò il peso massimo: Super Mario World, una versione portatile del suo grande classico che non perdeva neanche un grammo della sua giocabilità rispetto alla versione casalinga. L’idea di poter giocare a un titolo del genere ovunque e non solo di fronte al televisore di casa era un concetto ai limiti della fantascienza e infatti le 300.000 copie iniziali del Game Boy finirono in due settimane. Nel luglio seguente la console arrivò negli Stati Uniti e ne vendete 40.000 in un giorno.
Ma il vero cambio di passo arrivò con un alleato inaspettato che veniva dalla Russia. Un bel giorno l’imprenditore olandese Henk Rogers bussò alla porta di Nintendo con la licenza di un titolo sviluppato da un ricercatore russo: Tetris.
Super Mario era perfetto per convincere i fan di Nintendo, ma Tetris convinse tutti gli altri. Era il gioco perfetto per il Game Boy: la grafica non era importante, le meccaniche erano appassionanti e ti permettevano di giocarci mentre aspettavi l’autobus, in coda dal dottore, in spiaggia, ovunque. Il successo di Tetris fu tale da oscurare persino l’idraulico più famoso del mondo e solo i Pokémon, 9 anni dopo riuscirono a incarnare altrettanto bene il concetto di “killer app”, quel gioco talmente desiderato da convincerti a comprare una console.
Ma la concorrenza non rimase a guardare: l’Atari schierò il Lynx e Sega mandò in campo il Game Gear, entrambi erano decisamente più belli da vedere, con i loro schermi colorati, ma costavano di più, si mangiavano le pile come se fossero state caramelle, gli mancava l’incredibile offerta titoli di Nintendo e furono ben presto messi in disparte da quello scatolotto grigio. Come vedere un signore sovrappeso di mezza età che fa gol in rovesciata nella Champions League.
Pur cambiando pelle, colori e tecnologia nel corso degli anni, il Game Boy concluse la sua corsa ufficialmente il 23 marzo del 2003, dopo aver venduto oltre 118 milioni di unità nelle sue varie edizioni. Dal suo successo Nintendo ricavò una lezione valida ancora oggi: forma, funzionalità e giocabilità contano più della potenza grezza e la grafica può farti guadagnare un posto in vetrina, ma saranno i giochi a portarti in trionfo. Oggi la sua forma è diventata un’icona, un modo per definire il mondo dei videogiochi o delle console portatili, un marchio riconoscibile ovunque che riporta a pomeriggi di sfide, console collegate con un cavetto, un borsello da viaggio con dietro i giochi migliori e un pacco di pile, perché non si sa mai.
Le leggende non muoiono mai, ecco perché oggi il Game Boy resiste nei cassetti e nelle cantine di milioni di giocatori che ancora ci fanno una partitina ogni tanto, ma soprattutto con gli anni è diventato lo strumento musicale di un genere chiamato chiptune, che mescola sonorità elettroniche, nostalgie videoludiche e techno.
Chissà se Yokoi, che dopo l’insuccesso del Virtual Boy se ne andò da Nintendo e morì in un incidente automobilistico poco prima di lanciare un’altra console portatile, il Wonderswan, avrebbe mai immaginato che oggi nel mondo un sacco di gente balla usando la sua creazione come strumento musicale.
Lorenzo Fantoni, La Stampa