Le cene offerte con la carta di credito del Comune di Roma non rappresentano un reato. E così si conclude con un’assoluzione piena in Cassazione il processo sulle presunte «spese pazze» dell’ex sindaco Ignazio Marino, accusato per anni di falso e peculato. Un’inchiesta, quella della Procura di Roma, nata nel 2013, che aveva spinto Marino a dimettersi dalla carica di primo cittadino due anni dopo. E ieri, dopo quattro anni di processi, un’assoluzione in primo grado e una condanna a due anni in Appello, si è chiusa la vicenda che aveva decretato la fine della giunta Pd. «Hanno vinto la verità e la giustizia», ha commentato Marino, che ha aggiunto con amarezza: «La sentenza non rimedia alla cacciata di un sindaco democraticamente eletto». L’assoluzione era stata sollecitata dalla stessa accusa, rappresentata dal pg, Mariella De Masellis: nel corso della requisitoria aveva chiesto l’annullamento della sentenza di secondo grado senza rinvio «perché il fatto non sussiste». Una richiesta accolta nella tarda serata di ieri dai supremi giudici dopo una camera di consiglio di oltre 5 ore. E adesso punta il dito contro l’attuale giunta comunale a 5 Stelle l’avvocato dell’ex sindaco, Enzo Musco. «Sono gravemente in malafede», come dimostra «quel video di De Vito pubblicato il 2 ottobre del 2015 dove si evincono le modalità con le quali si volevano acquisire i documenti contabili della Giunta Marino».
Stando alle indagini della Finanza, coordinate dai pm Paolo Ielo e Roberto Felici, Marino utilizzò tra luglio 2013 e giugno 2015 la carta di credito comunale «per acquistare servizi di ristorazione nell’interesse suo, dei congiunti e di altre persone». In totale, secondo gli accertamenti delle Fiamme Gialle, avrebbe speso oltre 12 mila euro in diversi ristoranti della Capitale, ma anche di Milano, Torino e Firenze. A parere dei pubblici ministeri l’ex sindaco «saldava per 54 volte il conto di cene in ristoranti di Roma dove si era recato, generalmente nei giorni festivi e prefestivi, con commensali di sua elezione al di fuori della funzione di rappresentanza dell’ente». Sempre agli occhi dei pm avrebbe ordinato alle segretarie di formulare giustificativi non veri per accreditare il fine istituzionale degli esborsi. E però secondo la Suprema Corte queste tesi erano errate e nel suo comportamento non vi fu alcuna violazione. Tanto che hanno deciso di ribaltare il verdetto di secondo grado senza ordinare la celebrazione d’un nuovo Appello. E l’assoluzione è definitiva.
Edoardo Izzo, La Stampa