Brexit, May ritenta: mozione per rivotare accordo il 20 marzo e rinviare addio a Ue. Spunta emendamento su 2° referendum

Incassata l’ultima sconfitta ieri alla Camera dei Comuni, Theresa May si gioca oggi l’ultima carta. Il governo ha presentato una nuova mozione che chiede di rimettere in votazione mercoledì 20 marzo l’accordo raggiunto con Bruxelles sull’uscita del Regno Unito dall’Ue già bocciato due volte da Westminster e apre alla possibile richiesta all’Ue di un rinvio “breve” limitato al 30 giugno. Il Parlamento britannico affronta oggi “una scelta cruciale”, ha detto ai Comuni il vicepremier di fatto, David Lidington, precisando che, in caso di ‘no’ alla mozione, il governo “faciliterà” nelle prossime settimane la ricerca di “maggioranze diverse” in Parlamento su ipotesi di accordo alternative a quella della premier.

Il testo, su cui il gruppo Tory avrà libertà di voto, è stato illustrato stamane alla riapertura del dibattito da parte della ministra Andrea Leadsom. Se passa, sarà un segnale di possibile ricompattamento della pur risicata maggioranza di governo. Se no, s’aprirà l’incognita dello scenario della richiesta d’un rinvio lungo evocato dalla stessa premier. Rinvio su cui Donald Tusk si è detto possibilista e ha annunciato che “durante le mie consultazioni prima del Consiglio europeo chiederò ai 27 leader dell’Ue di essere aperti” , ma solo se accompagnato da “un ripensamento della strategia” britannica: ossia dall’indicazione di una Brexit più soft (basata ad esempio sul piano B dl leader laburista Jeremy Corbyn con permanenza nell’unione doganale); o da elezioni anticipate; o da un referendum bis.

Saranno 4 gli emendamenti promossi da deputati dell’opposizione o da Tory dissidenti dalla linea del governo ammessi oggi al voto dallo speaker della Camera dei Comuni, John Bercow.
Il primo, presentato da un fronte trasversale pro Remain, chiede che il rinvio sia collegato invece alla convocazione di un secondo referendum sulla Brexit. Il secondo, firmato fra gli altri dai laburisti eurofili Hilary Benn e Yvette Cooper, mira di fatto a togliere il controllo del negoziato con l’Ue al governo e a consentire che sia il Parlamento a proporre ipotesi di accordo diverse da quella della premier. Il terzo, sostenuto dal leader del Labour, Jeremy Corbyn, suggerisce uno scenario analogo, ma in forma più sfumata. L’ultimo infine contesta all’esecutivo il diritto di sottoporre di nuovo il piano May a un voto di ratifica. Bercow è stato criticato per non aver ammesso invece un emendamento che esclude un referendum bis.

La Commissione Ue ha fatto sentire la propria voce per fissare due concetti. “Per il tempo che il Regno Unito fa parte dell’Ue dovrà partecipare alle elezioni” europee. Così il portavoce della Commissione europea Margaritis Schinas, richiamando la lettera dei presidenti dell’esecutivo comunitario Jean Claude Juncker, e del Consiglio europeo Tusk di gennaio, risponde a chi chiede se il Regno Unito dovrà indire le elezioni europee nel caso di un’estensione della permanenza nell’Ue.

Seconda indicazione: Schinas ha sottolineato che la questione dell’eventuale proroga dell’articolo 50 – l’articolo del trattato attivato dopo il referendum del 23 giugno 2016 – “è nelle mani dei 27 leader” europei, che “decideranno all’unanimità in base alla richiesta che ancora deve arrivare” da parte britannica. Schinas non ha voluto commentare i termini e la durata dell’eventuale richiesta da parte di Londra. “Prima dobbiamo vedere una richiesta dal Regno Unito, poi sarà nelle mani dei 27 leader che decideranno”, ha detto.

Le ultime ore hanno fatto registrare spiragli di apertura verso la May dai Tory brexiteer ultrà e dagli alleati unionisti nordirlandesi del Dup. Dopo aver contribuito martedì a far naufragare per la seconda volta l’accordo di divorzio raggiunto dalla premier con Bruxelles, i falchi – o almeno alcuni di loro – lasciano ora intendere di potersi riallineare in un prossimo voto la settimana prossima. L’artificio in grado di favorire la retromarcia potrebbe essere quello di una revisione del parere giuridico dato dall’attorney general del governo, Geoffrey Cox, sul valore vincolante delle intese supplementari definite da May con i vertici Ue sul controverso backstop per il confine irlandese. Un parere che inizialmente aveva lasciato in sostanza “invariato” il rischio legale di un ingabbiamento a tempo indeterminato del Regno Unito nel backstop, ma che Cox potrebbe ora correggere secondo le aspettative diffuse da qualche ministro e raccolte da alcuni brexiteer radicali della corrente Tory dell’European Research Group (Erg).

Di fatto si tratterebbe di inserire un riferimento all’articolo 62 della Convenzione di Vienna per rivendicare a Londra il diritto di potersi sganciare unilateralmente da questo meccanismo nel caso di un “sostanziale cambiamento delle circostanze” previste dalle intese con Bruxelles.

Intanto, il presidente americano Donald Trump ha scritto su Twitter di non vedere l’ora di negoziare “un accordo commerciale dalle potenzialità illimitate con il Regno Unito”. Una presa di posizione letta come un endorsement in favore dell’uscita di Londra dall’Ue.

Ilfattoquotidiano.it

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