La voce di Theresa May: rauca, spezzata, inudibile. Nell’aula di Westminster risuonavano a stento le parole di un primo ministro che non ha più nulla da dire: perché ha subito una seconda, devastante sconfitta, forse definitiva. La Camera dei Comuni ha respinto di nuovo, con ben 149 voti contrari, l’accordo sulla Brexit che dovrebbe regolare l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. In tempi normali, in queste circostanze, qualsiasi leader del governo si sarebbe dimesso. Ma questi non sono più tempi normali.
A nulla dunque sono valse le rassicurazioni ricevute lunedì sera a Strasburgo dalla Commissione europea: che il «backstop», il freno di emergenza per impedire il ritorno a un confine fisico fra le due Irlande, sarebbe solo temporaneo. Non hanno convinto il procuratore generale, che non ha cambiato il suo parere legale: restava il rischio, per il Regno Unito, di rimanere intrappolato all’infinito nell’orbita europea. Una prospettiva inaccettabile per la folta fazione euroscettica del partito conservatore, che chiede una rottura netta con la Ue. Da qui la valanga di voti, che si sono sommati a quelli delle opposizioni, che ha seppellito l’accordo.
Un testo, ricordiamolo, che non contiene solo la clausola di salvaguardia per l’Irlanda del Nord, ma stabilisce anche l’ammontare del «conto del divorzio» (45 miliardi di euro) che Londra dovrà saldare, oltre alle garanzie per i cittadini europei residenti in Gran Bretagna. Ora, almeno in teoria, tutto torna in gioco.
Cosa succederà nell’immediato lo ha annunciato la stessa Theresa May, subito dopo il voto. I deputati saranno chiamati a esprimersi sulla possibilità che la Gran Bretagna lasci la Ue alla data stabilita, il 29 marzo, senza nessun accordo. È il temuto «no deal», lo scenario catastrofico che farebbe piombare nel caos la Gran Bretagna e infliggerebbe danni anche alle economie europee.
È l’ipotesi di default, quella automatica, ma nessuno la vuole, tranne gli euroscettici duri e puri. Dunque è assai probabile che il Parlamento britannico si esprima per escludere un «no deal».
Ma come? La strada la indica un nuovo voto: i deputati dovranno dire sì o no a un’ipotesi di rinvio della Brexit. Difficile predirne l’esito, perché molti non vorranno assumersi la responsabilità di dilazionare la volontà del popolo, espressa nel referendum del 2016. Ma d’altra parte è l’unica maniera per evitare di cadere dal precipizio.
C’è però un intoppo, e non è di poco conto. Sul rinvio della Brexit dovrà esserci l’accordo di tutti gli altri 27 Paesi della Ue. E lunedì Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione, è stato chiaro: non ci saranno nuove opportunità, non ci saranno ulteriori negoziati fra Bruxelles e Londra. Dunque un rinvio, ma per fare cosa? È la domanda che si porranno gli europei: i quali sono stanchi di provare a risolvere i problemi interni dei britannici.
Inoltre c’è lo scoglio delle elezioni europee: se la Brexit fosse rinviata oltre la fine di maggio, i britannici dovrebbero partecipare al voto per il rinnovo del Parlamento dell’Unione. Il che creerebbe un rompicapo legale. Più probabile allora una breve dilazione tecnica della Brexit, di poche settimane, giusto per prepararsi meglio a un divorzio senza accordi. Se fosse accordato un rinvio più lungo, magari di uno o due anni, a Londra si riaprirebbero i giochi: e si andrebbe probabilmente a elezioni anticipate. Ma assai difficilmente la May sarebbe ancora alla testa del partito e del governo.
Luigi Ippolito, Corriere.it