Maggie Stanphill, alla guida dell’iniziativa Digital Wellbeing, ci racconta le strategie con cui Google ci vuole aiutare a migliorare il nostro rapporto con la tecnologia. Che, può «arricchire la nostra vita e le nostre relazioni sociali, in maniera concreta»
Passeggiando tra i padiglioni del Mobile World Congress, la fiera delle telecomunicazioni che si è chiusa la scorsa settimana a Barcellona, si aveva la continua conferma di quanto all’inizio del nuovo millennio i Daft Punk ci avessero visto lungo con la loro hit Harder, Better, Faster. Ogni singolo espositore dell’importante evento catalano ha lavorato duro per mostrare prodotti e servizi migliori, più veloci, capaci di conquistare il mercato con la forza dell’innovazione tecnologica. I loghi del 5G campeggiavano su magliette, spille, totem luminosi, stand giganteschi e cartelloni pubblicitari.
Samsung e Huawei intanto ammaliavano i tecnofili con i loro smartfolds, ibridi fra smartphone e tablet con display pieghevole che (forse) apriranno la strada a una nuova categoria di dispositivi mobili.
Mentre tutto sembrava celebrare senza compromessi le magnifiche sorti e progressive della tecnologia, al Mobile World Congress c’era anche chi, come Google, ha preferito mettere in risalto una tendenza contraria. L’azienda di Mountain View, assieme ad altre novità software, a Barcellona ha annunciato infatti l’ampliamento della compatibilità della sua applicazione Digital Wellbeing con un numero sempre più ampio di smartphone Android. L’app, che in italiano si chiama Benessere Digitale, è la risposta alla crescente necessità degli utenti di riappropriarsi di un uso cosciente e positivo dei propri dispositivi mobili. Permette di avere sempre sotto controllo il tempo di accensione dello schermo dello smartphone, o di limitare il tempo passato su un’applicazione, un videogioco, su Netflix e su YouTube. C’è anche una funzione che imposta il display in bianco e nero allo scadere di un orario preimpostato, per rendere lo smartphone meno interattivo e ricordarci di posarlo (possibilmente in un’altra stanza) quando è ora di dormire.
Può sembrare una contraddizione il fatto che sia proprio Google, una delle più grandi aziende tecnologiche al mondo, a offrirci questi strumenti per usare meno i nostri smartphone. Secondo Maggie Stanphill, UX director di Google responsabile dell’iniziativa Digital Wellbeing, la contraddizione è tale solo in apparenza.
Benessere digitale e progresso tecnologico
«Ciò che vogliamo promuovere è l’uso intenzionale della tecnologia», mette subito in chiaro quando la incontriamo a Barcellona per la nostra intervista. «L’utente deve essere cosciente del modo in cui passa il suo tempo con la tecnologia, per poter usare lo smartphone meno ma soprattutto meglio. Significa usarlo per scopi che arricchiscano la nostra vita e le nostre relazioni sociali, in maniera concreta». Non c’è una contraddizione neppure con i processi di avanzamento tecnologico, aggiunge. «Si può imparare a usare la tecnologia in maniera intenzionale e attiva, quello deve essere l’obiettivo». La parola chiave, per dirla con il gergo di Google, è imparare. Per questo Digital Wellbeing non è solo un’app ma un’iniziativa più ampia, che include materiali educativi e coinvolge tutta l’azienda, con linee guida che tutte le divisioni del gigante di Mountain View sono chiamate a seguire. Anche in questo caso nessun attrito con il modello di business di Google, dice Stanphill. «L’iniziativa Digital Wellbeing è stata ufficializzata lo scorso anno dal nostro CEO, Sundar Pichai, come uno sforzo collettivo di tutta l’azienda. Contestualmente ho iniziato a ricoprire questo mio ruolo di coordinamento. All’interno di Google il mio lavoro consiste soprattutto nel discutere con le varie divisioni i nuovi parametri, i sistemi di misurazione e di incentivi che ci possano allineare sui principi del digital wellbeing, che vogliamo traspaiano in ogni nostro prodotto o servizio».
Un nuovo Zeitgeist
Ma come mai Google ha deciso proprio ora di dedicare risorse al benessere digitale, nonostante le problematiche legate all’uso eccessivo dello smartphone siano note ormai da anni? «Questa iniziativa di Google non è isolata nel settore», risponde Stanphill. «Credo che questo sia lo spirito del tempo del settore. Ci siamo resi conto di dover rispettare il grande privilegio di avere un contatto diretto con le vite di miliardi di persone. In passato le aziende tecnologiche non hanno pensato agli utenti in maniera olistica. Ma possiamo ancora innescare un cambio di direzione».
Può bastare, secondo lei, un’iniziativa come Benessere Digitale per liberarsi da una dipendenza che alcuni commentatori hanno paragonato addirittura al tabagismo?
«Come per ogni abitudine, il primo passo è riconoscerla. Per questo crediamo che sia importante un’app come Benessere Digitale», è la risposta. «Noi non crediamo nelle soluzioni drastiche del tipo “stai usando il telefono da cinque ore, adesso te lo spegnamo”. Avrebbero l’effetto opposto. Preferiamo un sistema di inviti all’azione, più sottili e dal tono più amichevole. Sono molto efficaci, e l’utente – questo è molto importante – rimane al centro e può controllare queste notifiche, disattivarle se lo disturbano».
Risultati incoraggianti
I dati raccolti dal lancio dell’iniziativa sono incoraggianti: la risposta degli utenti Android è positiva, e le ricerche condotte da Google con alcune università partner mostrano che sono sempre di più le persone che apprezzano un sistema che li aiuti a liberarsi dal giogo delle notifiche e dalle interferenze della tecnologia, soprattutto se legate ai social media. «Si parla spesso della Fear Of Missing Out, la paura di perdersi informazioni vitali se il telefono è spento e non abbiamo accesso alle notiziei» conclude Stanphill. «Le nostre ricerche mostrano che esiste però anche l’effetto opposto, la Joy Of Missing Out. C’è un piacere più profondo nel riappropriarsi del proprio tempo, nel riportare i rapporti sociali a una dimensione più umana, ma soprattutto nel riuscire a riallineare le nostre intenzioni con ciò a cui preferiamo dedicare le nostre attenzioni».
Andrea Nepori, Vanity Fair