Basta insomma con la secolare demonizzazione delle innovazioni, che dalla carta stampata alla televisione non hanno affatto isolato le persone e distrutto le società. Anche Platone, giura lo studioso, avrebbe adorato i videogiochi, e scuole e famiglie dovrebbero fare altrettanto. «La vita si vive sempre con gli strumenti della propria epoca. I dispositivi digitali sono ponti tra le esperienze individuali e quelle comuni». Jenny Anderson, che ha recensito il libro per Quartz, contesta un po’ noiosamente a Shapiro un eccesso libertario, e, in modo più convincente, il fatto che non faccia distinzioni di genere, visto che le ragazze si danno più ai social e i ragazzi ai videogiochi, due faccende ben diverse. Lui in effetti insiste sulle virtù del gaming, che allena — assicura — i muscoli della vita: come negoziare, come spingere i limiti più in là, come darsi regole, il tutto in un contesto di cooperazione ed esposizione ad altre culture. La parola dipendenza non ha senso: i ragazzi non sono dipendenti ma «abbracciati» dai loro telefonini (o come dice un altro studioso, Danah Boyd, sono «dipendenti l’uno dall’altro» e la tecnologia è il loro mezzo per comunicare). Insomma, fissare un tempo massimo ad attività così creative e formative non ha senso. Qualche regola, però, ai figli la detta anche Shapiro: prima di dormire si leggono libri, in macchina ci si lascia andare alla noia, a tavola niente cellulare. «Essere adulti vuol dire essere capaci di adattare i pilastri della saggezza umana, in modo che i nostri valori collettivi mantengano il loro significato anche in nuovi contesti». Farà scuola?
Gianluca Mercuri, Corriere.it