Il business delle sigarette, i limiti imposti alla comunicazione delle industrie del tabacco e i rapporti di queste aziende coi governi si stanno intrecciando in una serie di paradossi di difficile soluzione.
Le sigarette non sono più icone da sfoggiare, sono sparite dai locali pubblici, dai film, i marchi non fanno né pubblicità né comunicazione, non si promuovono più nel mondo dei motori, della vela o dell’abbigliamento, e neppure sul pacchetto, occupato al 65% da messaggi contro il fumo. Insomma, se uno oggi vuole intercettare brand come Marlboro o Camel, deve andare in tabaccheria e stop.
Tuttavia, negli ultimi dieci anni, i consumi di sigarette in Italia sono calati pochissimo. Nel 2017 il mercato sigarette nella Penisola ha prodotto un fatturato di 69,3 miliardi di euro, portando nelle casse dell’erario circa 14 miliardi di euro tra accise e Iva grazie ai 12 milioni di fumatori. Quindi le sigarette, un po’ come il gioco o i combustibili, sono una meravigliosa mucca da mungere per sistemare facilmente i conti dello stato.
Poiché, però, è noto che il fumo faccia malissimo, con sei milioni di morti provocate ogni anno, di cui 80 mila in Italia, si cercano strade alternative. La migliore sarebbe quella di smettere, ma in pochi ce la fanno. Si è provato con le sigarette elettroniche, ma solo il 30% di chi svapa riesce poi a eliminare del tutto le sigarette vere.
Il gruppo Philip Morris (marchi Marlboro, Merit, Philip Morris, Chesterfield ecc.), che in Italia controlla il 51% del mercato delle sigarette, nel 2008 è partito col progetto Iqos, investendo oltre 4,5 miliardi di dollari nella ricerca e nelle sperimentazioni. E nel 2014 ha preso il via dall’Italia la commercializzazione di Iqos, un dispositivo elettronico dal design molto curato, da caricare con sigarettine vendute a parte al costo medio attorno ai 5 euro (quindi analogo a quello delle sigarette classiche). Nell’Iqos, però, non c’è una combustione delle sigarette (che avviene a 900 gradi e provoca il rilascio di sostanze molto tossiche), ma solo un loro consumo attraverso un procedimento di riscaldamento (a 300 gradi) che ovviamente non è salubre ma è molto meno rischioso. Peraltro, come spiega Eugenio Sidoli, managing director di Philip Morris Italia, «il 70-80% degli utilizzatori di Iqos poi smette di fumare le sigarette classiche».
Dopo il debutto in Italia, il progetto Iqos è ora in 43 paesi nel mondo, con sei milioni di consumatori esclusivi (ovvero, hanno smesso di fumare sigarette combuste) e altri tre milioni in fase di conversione. I nuovi prodotti a riscaldamento valgono già 3,6 miliardi di dollari di ricavi, pari al 13% dei ricavi totali di Philip Morris nel mondo.
In Italia gli utilizzatori di Iqos dovrebbero arrivare a quota 500 mila per fine 2018, con un business commerciale per Philip Morris Italia di circa 80 milioni di euro nel 2017, che potrebbero triplicarsi nel 2018. E bisogna ricordare che i ricavi complessivi di Philip Morris Italia sono stati pari a 1,351 miliardi di euro nel 2017 (con 1.163 dipendenti), e che l’altra società, la Philip Morris manufacturing & technology Bologna spa, creata nel 2016 investendo 1,2 miliardi in stabilimenti che producono i nuovi dispositivi a riscaldamento, è già arrivata a 900 milioni di ricavi nel 2017, con duemila dipendenti e l’85% della produzione destinata all’estero.
Da un punto di vista teorico il dispositivo Iqos sarebbe paragonabile a un rasoio elettrico, e potrebbe essere quindi comunicato in pubblicità e con promozioni, così come già fanno le sigarette elettroniche.
Però Philip Morris non vuole barare, essendoci anche la carica a base di sigarette che segue la legislazione delle sigarette classiche. E quindi ci si trova nel paradosso di non poter fare sapere ai consumatori dell’esistenza di un prodotto in grado di abbassare di molto i rischi legati al fumo: «In Italia», ribadisce Sidoli, «solo il 20% delle persone sa dell’esistenza di Iqos. Cerchiamo di essere una soluzione al problema del fumo. Il prodotto, lo ribadisco, non è privo di rischio. Ma facciamo le stesse cose dell’industria alimentare, chimica o farmaceutica per provare a rendere più sostenibili i prodotti. Quindi sarebbe corretto incentivare la conoscenza di dispositivi nuovi e meno rischiosi, è un tema sociale, non solo aziendale, da veicolare con opportuna comunicazione, disincentivando quelli vecchi, ovvero le sigarette, come per esempio fanno negli Usa. In Italia, invece, non succede nulla». Le multinazionali del tabacco, in sostanza, vengono ancora viste come nemici con cui non colloquiare. Salvo ricordarsi delle sigarette per aggiungere accise e tasse varie (il governo lo sta per fare anche in questa manovra), nella certezza di gonfiare le casse pubbliche perché tanto gli italiani non intendono smettere di fumare.
E c’è anche una specie di conflitto di interessi da cui è difficile uscire: le cariche di sigarette per Iqos sono tassate al 50% rispetto alle sigarette classiche. Quindi assicurerebbero più introiti per Philip Morris, rispetto al pacchetto di sigarette classiche, e meno gettito per lo stato. Un vero dilemma.
di Claudio Plazzotta – Italia Oggi