Il cronista di razza che fu ucciso dalla sindrome del foglio bianco
Svelando la verità sulla morte del bandito Giuliano diede una lezione di giornalismo investigativo all’Italia. Quando non riuscì più a scrivere con la perfezione che gii era propria, decise di farla finita e si ammazzò
(di Cesare Lanza per LaVerità) È stato uno dei più grandi giornalisti italiani, un simbolo, un mito per molti di noi. Non l’ho mai incontrato, Tommaso Besozzi, ma è come se lo avessi conosciuto bene, è diventato nel tempo un familiare, un amico, un riferimento fondamentale: per me e per migliaia di giornalisti venuti dopo di lui. Ero un bambino, avevo otto anni ed era il luglio del 1950, quando sentii parlare di lui per la prima volta, senza che nessuno ne facesse il nome. Ricordo tutto perfettamente. Vivevamo a Bogliasco, un bel paese sul mare in provincia di Genova, e avevo accompagnato mio padre dal barbiere, per tagliarci i capelli. Le sale dei barbieri erano ritrovi accoglienti in cui i clienti, in attesa di forbici e pettini, chiacchieravano di tutto, un po’ di politica ma soprattutto di amori e di belle attrici, di sport, di pettegolezzi e anche di delitti, di cronaca nera. In quel torrido giorno di luglio tutti discutevano di una notizia sensazionale: il famoso bandito siciliano Salvatore Giuliano era stato sorpreso dalla polizia e ucciso. Accanto alle edicole c’erano locandine che annunciavano l’evento con scritte enormi e la fotografia del fuorilegge. Campeggiava quella del settimanale L’Europeo. Tutti ne parlavano. Fino a quando il barbiere, ch’era sempre il più saggio e competente, disse con una certa fierezza: «Ho letto l’articolo. Non è andata come dicono e come pensate. C’è del mistero!». Sì, ricordo come se fosse oggi. La sorpresa di tutti e l’approvazione di mio padre, che aveva fatto la guerra e di misteri ne aveva visti tanti, non si fidava dello Stato e ogni settimana comprava L’Europeo, all’epoca il giornale anticonvenzionale e controcorrente. Negli anni seguenti, quando diventai giornalista praticante, mi appassionai a quel caso, leggendo, studiando e approfondendo; ci fu anche un magnifico film, nel 1962, su Giuliano, di Francesco Rosi. E con ammirazione, come tanti, scoprii che la versione ufficiale sulla morte del bandito era stata messa in dubbio, contestata e infine sbugiardata da uno straordinario inviato speciale, Tommaso Besozzi. E tutti ricordano il titolo che Arrigo Benedetti fece per proporre quel reportage: «Di sicuro c’è solo che è morto».
Lascio rispettosamente la parola a grandi testimoni, che – fortunati! – lo hanno conosciuto e ad altri giornalisti che lo hanno onorato con i loro scritti. Michele Tito, sulla pubblicazione dell’inchiesta: «Fu un atto di ardimento straordinario… un atto che sarebbe stato ignobile per gran parte dei giornalisti di allora, per un direttore come Missiroli, tanto per fare un nome. Anche Arrigo Benedetti ebbe dei dubbi se pubblicare o no, si trattava dì scoprire la nudità dello Stato. E loro, il gruppo de L’Europeo, erano i democratici più avanzati in Italia e dello Stato aivevano un senso fortissimo». Giorgio Bocca: «Tommaso Besozzi, il giornalista che rivelò la vera morte del bandito Salvatore Giuliano, ucciso da suo cugino Gaspare Pisciotta per conto dei carabinieri, non usava mai una parola più del necessario, scriveva cronache essenziali, pure e dure come un diamante. Un giorno che gli finì la voglia e la capacità di restare in quella sua perfezione, tolse la sicura a una bomba a mano e se la fece esplodere nel petto, come un kamikaze del buon giornalismo…». È commovente il lungo racconto formato dal prestigioso, raffinato giornalista Bernardo Valli: «Nell’albergo di piazza Cincinnato dove alloggiava da mesi gli cambiavano camera spesso… Quando lo andai a trovare sonnecchiava con il cuscino sulla faccia per difendersi dalla luce che irrompeva dalle finestre senza tende e aveva un libro aperto sul petto. La sua figura scarna, allungata, con i pantaloni di velluto a coste rimboccati e la camicia bianca sbottonata sulle costole, davano l’impressione di un estremo abbandono. Ma il mio arrivo rianimò quel corpo stanco e la bella faccia, scavata da lineamenti nobili, liberatasi del guanciale, abbozzò un sorriso. Questa immagine di Tommaso Besozzi mi resta nella memoria. È una delle ultime. Risale ai primi anni Sessanta. Ne mancava ancora qualcuno al suicidio, che avvenne a Roma, nel novembre 1964, in via Dandolo, la strada che sale fino al Gianicolo. Piazza Cincinnato è invece a Milano, nei pressi della stazione centrale. Tommaso Besozzi aveva trovato un alloggio a buon mercato in un albergo in corso di restauro, in cui vivevano alcune prostitute francesi, che non l’avevano degnato di uno sguardo fino al giorno in cui avevo spiegato loro che l’anziano signore malandato, non ancora sessantenne, era un celebre giornalista in gravi difficoltà psicologiche. Non riusciva più a scrivere. E da allora la piccola comunità femminile francese colmava di rispettose gentilezze Tommaso Besozzi. Gli sorridevano. Le ragazze gli preparavano qualche pietanza sul fornello in camera. Lui accettava quei riguardi con timidezza. Provavo una rispettosa tenerezza per quel cronista famoso, stimato, e ridotto quasi in miseria. Aveva un’eleganza distratta. Incuteva rispetto. […] Trasformate in sorelle e amiche, le prostitute francesi erano via via affascinate da quel signore trasandato che non riusciva più a fare il mestiere per il quale era famoso. Non riusciva più a scrivere. L’intellettuale ferito le inteneriva. E si informavano se era infine riuscito a scrivere l’articolo che doveva consegnare ogni settimana a un ex maresciallo dei carabinieri, al momento guardiano in un vicino parcheggio in viale Tunisia. L’articolo era per La Domenica del Corriere e l’ex maresciallo avrebbe incassato un decimo del compenso dovuto all’autore, se fosse riuscito a farglielo scrivere, e a consegnarlo in tempo al settimanale. Quel giorno andavo a informarmi se era riuscito a lavorare. Mi accoglieva sempre con gentilezza».
Ecco il ricordo di Ferruccio De Bortoli nella prefazione al libro La vera storia del bandito Giuliano: «Non ho conosciuto Tommaso Besozzi, ma è come se mi avesse accompagnato, precedendomi, in tutti i giornali in cui sono stato: L’Europeo, ovviamente, il Corriere della Sera, il Corriere d’Informazione, il Sole. Indro Montanelli, Enzo Biagi, Gaetano Afeltra, Mario Perazzi e tanti altri non mancavano di raccontare un aneddoto su Tom…. La storia italiana del dopoguerra è scandita dallo scoop dell’Europeo sulla morte del bandito Giuliano. Una •pietra miliare del giornalismo investigativo. In tempi amari di post verità e di fatti alternativi, risplende ancora di più come la plastica dimostrazione di come sia utile a una società democratica una stampa non allineata, non conformista, non banalmente sdraiata… Besozzi smontò la goffa verità ufficiale sulla fine del bandito di Montelepre e consentì di capire meglio i legami tra la mafia non solo siciliana – che si sbarazzò dell’ormai scomodo Turiddu – la politica e diversi apparati dello Stato. Ma non si limitò solo a questo, che sarebbe già stato molto. Analizzò in profondità il “fenomeno Giuliano”, spogliandolo da tutta la retorica dello “spietato giustiziere”, dell'”arcangelo che leva la spada fiammeggiante a difesa degli oppressi”. Quell’incipit del famoso reportage di Tom “Di sicuro c’è solo che è morto”, era scritto nella bacheca della redazione dell’Europeo e faceva parte della corposa eredità professionale di Arrigo Benedetti: no alle frasi fatte, agli slogan logori, alle espressioni oscure e circonvolute. I pezzi si rifacevano due, tre, infinite volte. E non c’erano i computer. La professione aveva qualcosa di artigianale. Besozzi, nelle descrizioni dei colleghi che lo avevano conosciuto, poteva sembrare, nell’aspetto, un manovale del giornalismo con quelle sahariane con le tasche piene di oggetti. Aveva la passione degli esperimenti elettrici o chimici. E per il suicidio preparò con cura meccanica il proiettile che lo avrebbe ucciso».
Il suicidio – vero e tristissimo – sembra tratto da una fantasia letteraria, un’invenzione romantica. Cito dal libro Tommaso Besozzi, una vita in prima pagina di Giancarlo Pertegato: «…Se ne andò facendo esplodere contro se stesso un ordigno da guerra che aveva costruito in due settimane, con sapienza tecnica e manualità da artigiano provetto. Nel quartiere di Roma dove abitava fu allarme: molti pensarono ad un attentato. Dopo aver vissuto in punta di piedi aveva voluto un congedo tonante. Così il solitario Tom si separava dalla vita come l’autore cui era stato paragonato: Hemingway, scomparso nel luglio 1961, suicida, inerme di fronte allo stesso male: il foglio bianco». Lui, Besozzi, ha scritto del suo scoop in altri articoli. Un anno dopo, ad esempio: «Salvatore Giuliano è stato ucciso a tradimento, nel sonno; e il suo corpo è stato portato più tardi nel cortile di via Mannoneper la messa in scena finale. Il capitano Perenze ha sparato su un cadavere». E ancora; «Giuliano era solo uno sventurato e disperato picciotto, senza una particolare vocazione, che camminava dondolando, parlava a voce bassa… Il rispetto era mantenuto soltanto dalla sua straordinaria potenza. Il giorno che questa decadde, la sentenza di Partinico fu omologata e sottoscritta da tutte le mafie». Besozzi era nato a Vigevano il 20 gennaio 1903, si uccise a Roma il 18 novembre 1964. È stato maestro, tra gli altri, di Enzo Biagi e Oreste del Buono, mentre Enrico Mannucci gli ha dedicato la biografia I giornali non sono scarpe (Baldini&Castoldi). Per ultimo, voglio ricordare le prime righe di quello storico articolo (nel numero 29 dell’Europeo del 1950): «Chi è stato a tradirlo? Dove è stato ucciso? Come? E quando? La grande maggioranza dei siciliani non crede alla descrizione ufficiale del conflitto nel quale ha trovato la morte Salvatore Giuliano..»