Dal Mit un test di Turing ‘minimo’ sviluppato per stabilire dalla scelta di una sola parola se si ha a che fare con un uomo o una Ai. Alla prova dei fatti, il termine più efficace stupisce
SOLITAMENTE è ai computer che si chiede di spacciarsi per esseri umani. È quello che fa il famoso test di Turing, il metodo proposto nel 1950 dal grande matematico inglese di cui porta il nome per cercare di stabilire quando i computer avranno acquisito una capacità di pensiero simile alla nostra. Ma con i progressi dell’Ai che procedono a passi da gigante, è arrivato il momento di cambiare le carte in tavola: come fare per convincere qualcuno che quello con cui sta parlando è proprio un essere umano? A chiederselo sono stati John McCoy e Tomer Ullman, due ricercatori del dipartimento di Brain and Cognitive Sciences dell’Mit, che in un articolo pubblicato sul Journal of Experimental Social Psychology presentano la loro imprevedibile risposta: dati alla mano, parlare di deiezioni corporee sarebbe il modo più rapido per assicurarsi di non essere scambiati per un computer.Come siamo arrivati a una risposta del genere? Lo scopo dei due ricercatori – scrivono nello studio – era quello di indagare le differenze che esistono tra macchine ed esseri umani. O più precisamente, quali sono le caratteristiche che, secondo noi esseri umani, ci distinguono maggiormente da un computer. Un ottimo modo per scoprirlo è quello quello che i due autori definiscono un ‘test di Turing minimo’, un esperimento mentale in cui un essere umano e un computer devono, entrambi, cercare di passare per uomini in carne e ossa. Senza avere a disposizione un’intera conversazione, come nella formulazione originale di Turing, ma basandosi unicamente una singola parola.
•L’ESPERIMENTO MENTALE
•PAROLE ED EMOZIONI
Per ottenere la loro risposta, McCoy e Ullman hanno reclutato oltre mille persone su Amazon Mechanical Turk, una piattaforma di crowdsourcing che permette a ricercatori e aziende di assoldare ‘intelligenze umane’ per svolgere compiti che i computer non sono ancora in grado di portare a termine, spesso utilizzata proprio per svolgere esperimenti di psicologia e scienze sociali. I partecipanti hanno quindi risposto alla domanda posta dal giudice nell’esperimento, e le 428 parole da loro scelte (più parole sono state scelte da diverse persone) sono state divise per argomento. Il 47% dei partecipanti, in questa fase, ha scelto un termine appartenente a quella che i ricercatori definiscono ‘percezione della mente’, ovvero termini che hanno a che fare con la coscienza (memoria, libero arbitrio, moralità) o con l’esperienza emotiva (dolore, gioia, eccetera). A farla da padrone – forse prevedibilmente – è stato il termine ‘amore’, seguito da ‘compassione’, ‘essere umano’ e ‘per favore’ (in inglese please).
Dopo aver capito quali parole sceglieremmo per distinguerci da un robot, i ricercatori hanno quindi cercato di stabilire quanto queste parole siano efficaci. Per simulare con una buona approssimazione quale potrebbe essere la decisione del giudice hanno quindi scelto la parola apparsa con più frequenza per ognuno dei 10 argomenti emersi nel primo esperimento (cibo, sentimenti, funzioni corporali, eccetera). Hanno appaiato in tutte le combinazioni possibili le 10 parole così trovate, e hanno poi chiesto ad altre 2.400 persone di decidere quale, per ogni coppia, fosse la parola proposta da un essere umano. Analizzando quindi le decisioni dei partecipanti hanno ottenuto la risposta che cercavano.
•IL TABU’ CHE CI RENDE UMANI
Il vincitore indiscusso è stata infatti la parola ‘cacca’, ritenuta più umana della seconda classificata, ‘amore’, nel 69% dei casi, e in in termini assoluti, e valutata quella con la maggior probabilità di essere identificata come umana in tutti gli accoppiamenti. Per i ricercatori, una possibile spiegazione di questi risultati è legata al fatto che le parole vietate, i tabù, hanno una maggiore forza espressiva, perché non descrivono una emozione (come nel caso della parola ‘amore’) ma la suscitano direttamente, che sia indignazione, disagio, o vergogna. E per questo vengono attribuite più facilmente a un essere umano, piuttosto che a una intelligenza artificiale.
•NOI E LE MACCHINE
A prescindere dalla spiegazione, comunque, una cosa è certa. Quando si tratta di riflettere su cosa ci distingua da una macchina ci piace pensare a parole e sentimenti nobili come l’amore, la compassione, e via dicendo. Ma quando ci troviamo dalla parte del giudice, e dobbiamo stare attenti a non cadere nei tranelli di un computer particolarmente furbo, sembra proprio che essere umani sia questione di tornare alle basi: parolacce e funzioni corporali.
Simone Valesini, Repubblica