Lo spreco di cibo è stato oggetto negli ultimi anni di grandi attenzioni, con numerose iniziative di legge – dalla Francia fino all’Italia – per cercare di limitare il problema. Eppure gli ultimi dati forniti da The Boston Consulting Group certificano che la strada per dimezzare lo spreco entro il 2030 – come vorrebbero le Nazioni Unite – è lunga e impervia. Secondo il colosso della consulenza, infatti, ogni anno nel mondo si buttano via circa 1,6 miliardi di tonnellate di cibo, per un valore di 1.200 miliardi di dollari. “È un terzo della produzione globale, un numero sconvolgente: se accumulato, quanto finisce nella spazzatura occuperebbe un’area dieci volte più grande di Manhattan”. Tradotto in geografia italiana, vuol dire coprire una provincia grossa come quella di Rimini o La Spezia.
Quel che è grave, dicono in una nota gli specialisti, è che “il dato è in crescita e, se non ci saranno interventi decisi, tra 12 anni si butteranno 2,1 miliardi di tonnellate di cibo, per un valore di 1.500 miliardi di dollari. Tra le conseguenze vanno annoverati danni all’atmosfera (il cibo non consumato è responsabile dell’8% delle emissioni globali di gas serra) e ritardi nella soluzione del problema della fame, che tuttora riguarda 870 milioni di persone”.
Il report Tackling the 1,6 Billion Ton Food Loss and Waste Crisis di Bcg dice che “gli sprechi avvengono durante tutte le fasi della filiera, anche se principalmente in quella iniziale (la produzione) e in quella finale (il consumo): i Paesi emergenti sprecano soprattutto nella prima fase, a causa di carenze nelle tecniche produttive e di raccolto, oltre a ritardi nelle infrastrutture per il trasporto; i Paesi avanzati, al contrario, sprecano nella fase finale. L’eccesso di offerta, l’utilizzo di forme di packaging inadatte, la scarsa consapevolezza del consumatore e campagne promozionali sbagliate moltiplicano il volume degli scarti. Risulta evidente che, per tentare una soluzione, è necessario coinvolgere tutti gli attori interessati: le aziende produttrici e di trasporto, i rivenditori, i consumatori e i governi dei Paesi”.
Oltre alle infrastrutture inadatte e alla mancante sensibilità tra aziende e consumatori, Bcg annovera tra le concause di questa situazione “una mentalità aziendale che privilegia altri parametri di performance del processo produttivo (i costi e l’efficienza, ma non lo spreco alimentare), la poca collaborazione tra gli interessati e le regolamentazioni insufficienti. I sintomi di una malattia sempre più grave”.
Come porre rimedio a questa deriva? Come spesso accade, la via più immediata è quella di prendere le buone pratiche esistenti e provare ad estenderle. Sono tredici le iniziative censite nella filiera analizzata dal Bcg, e se si riuscisse a replicarle su scala globale la stima è di abbattere lo spreco (e i costi) per almeno 700 miliardi di dollari ogni anno, di fatto centrando gli obiettivi Onu.
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