Nel contratto per il governo del cambiamento, firmato da M5s e Lega, si prevede «l’abolizione degli squilibri del sistema previdenziale introdotti dalla riforma delle pensioni c.d. Fornero, stanziando 5 miliardi per agevolare l’uscita dal mercato del lavoro delle categorie ad oggi escluse» con l’introduzione di una quota 100 e la proroga di «opzione donna» che permette alle lavoratrici con 57-58 anni di età e 35 anni di versamenti contributivi di andare in pensione subito con un regime integralmente contributivo. Si prevedeva anche l’introduzione di una pensione di cittadinanza di 780 euro mensili.
Da allora gli esponenti più autorevoli di governo hanno sempre ribadito l’intenzione di tener fede a questo impegno. Solo pochi giorni fa Matteo Salvini ha dichiarato che «Dobbiamo, e ci stiamo già lavorando, mantenere l’impegno sacro preso con milioni di italiani di smontare quell’infamia che è la legge Fornero che sta rovinando la vita a milioni di italiani. Se ci dicono che non si può fare ce ne freghiamo e lo faremo lo stesso».
Le ultime parole del vicepremier sono pronunciate con un tono di chi vuole rifilare un virile calcio nel didietro ai soliti azzeccagarbugli capaci solo di sollevare problemi invece di risolverli. Ma non è proprio così. Perché i soldi per mantenere queste fantastiche promesse proprio non ci sono. E non si troveranno certamente nelle prossime settimane, cioè prima dell’approvazione della legge di Bilancio, che dovrebbe contenere la riforma delle pensioni.
Secondo i dati dell’Osservatorio conti pubblici, la spesa previdenziale italiana è già una delle più alte d’Europa. Uno studio dell’Ufficio parlamentare di bilancio ha calcolato che le uscite per prestazioni previdenziali, che nel 2015 valevano il 15,7% del pil, potrebbero arrivare fino al 20,5% nel 2040, per poi ridursi progressivamente fino a toccare, nello scenario più favorevole, il 13,1% nel 2070. Già da questi pochi numeri è evidente che non è nemmeno lontanamente immaginabile che si possa aumentare la percentuale di risorse drenate dal sistema previdenziale.
Anzi, è abbastanza logico ipotizzare che, più il governo insisterà a promettere il paese dei balocchi, meno i mercati finanziari saranno disponibili a prestarci i soldi che ci servono, banalmente, per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici o le pensioni, più lo spread è destinato ad aumentare. Negli ultimi quattro mesi è già aumentato di 150 punti e questo significa che, se le cose non peggiorano ulteriormente, l’anno prossimo il servizio del debito avrà un costo di 5 miliardi in più. Grazie solo alle dichiarazioni poco ponderate dei nostri governanti.
Non è un caso se il Tesoro stia studiando le possibili vie d’uscita da un eccesso di aspettative, che consentano ai due vicepremier di salvare anche la faccia. L’ipotesi al momento più plausibile è quella di una quota 100 mitigata con opportuni correttivi, come il limite minimo di età pensionabile di 64 anni e l’applicazione integrale del sistema contributivo. A queste condizioni il costo della quota 100 dovrebbe aggirarsi intorno ai 4 miliardi. Ma il rischio è che chi vuole anticipare il ritiro dal mondo del lavoro si trovi con assegni molto penalizzati. Così come «opzione donna», si trasformerà in molti casi in assegni da fame, a causa del sistema contributivo, quasi sempre penalizzante.
Si pone comunque il problema di trovare i 4 miliardi necessari. Le dichiarazioni degli esponenti leghisti e cinquestelle fanno pensare che si stia pensando di recuperarne una parte con il taglio degli assegni superiori a 4-5 mila euro, come previsto nel contratto di governo. Ma anche qui i problemi non mancano. Perché più volte la Corte costituzionale è intervenuta a bocciare interventi di questo tipo effettuati nel passato. La Consulta ha anche fissato limiti precisi al taglio degli assegni previdenziali, che di fatto rendono praticamente impossibile un intervento che non sia la trasformazione del sistema di calcolo, per gli assegni oltre una certa soglia, da retributivo a contributivo. Con problemi non semplici da superare in termini di equità e con il risultato di dare soddisfazione all’invidia sociale presente tra gli elettori dei due partiti, ma di recuperare ben poche risorse da destinare alla solidarietà previdenziale.
L’innalzamento a 780 euro del livello delle pensioni minime resterà quindi, con tutta probabilità, una promessa impossibile da mantenere. Anche perché, con la prospettiva di una pensione di questo tipo, verrebbe meno ogni motivazione a versare i contributi previdenziali. Al contrario, sarebbe un incentivo formidabile al lavoro nero.
Marino Longoni, ItaliaOggi Sette