Giovani e appassionati: ecco chi sono i guerrieri antiplastica
28 Luglio 2018
Era talmente grande, la bocca della manta gigante che danzava al suo fianco, che Tania si è posta una sola domanda. «Quanta plastica potrebbe ingerire?». Marcello invece voleva andare più a fondo: fino agli abissi, «prendere una bottiglietta a 200 metri di profondità e scriverci sopra che forse si decomporrà nel 2400, giusto per ricordarlo a tutti».
Loro, come tanti altri ricercatori, per vincere la battaglia contro l’inquinamento da plastica usano l’arma della conoscenza. Sono giovani, curiosi, italiani, trentenni e hanno tutti lo stesso sogno: far tornare a respirare il mare.
Perché con 8 milioni di tonnellate di plastica che ogni anno finiscono negli oceani, sostengono i “guerrieri” anti-inquinamento, soltanto con dati, scienza e divulgazione si potranno aprire gli occhi delle persone e cambiare il terribile scenario che prevede, nel 2050, la massa di plastica negli oceani superare il peso di tutti i pesci.
Per questo Tania Pelamatti, 28 anni, dalla Val Camonica è volata fino al caldo Messico. «Stavo nuotando con una manta gigante e mi chiedevo davvero quanta plastica, di quella lì intorno, potesse ingerire. Ero preoccupata». Biologa marina, sta facendo un dottorato di ricerca per scoprire gli effetti delle microplastiche su questi maestosi animali. «Sai, ci possono dire molto sullo stato di salute delle acque – spiega dalla Baja California – perché vivono a lungo, oltre 50 anni, e sono dei filtratori». Sta raccogliendo dati per scoprire l’impatto degli inquinanti sulla loro vita: «A giudicare da quanta plastica vedo nei mari dopo gli uragani, scaricata dai fiumi, temo indicazioni sconfortanti. Ma devo aspettare le analisi».
Lo stesso è capitato a Martina Capriotti, ricercatrice di San Benedetto Del Tronto, 31 anni e una vita «con le bombole sulle spalle». Le succedeva ogni volta che si immergeva: «Vedevo sempre più detriti, dovevo fare qualcosa». Ha vinto la borsa di studio Sky Ocean Rescue National Geographic e nel mese di giugno ha iniziato i campionamenti nell’Adriatico. Con le reti raccoglie le microplastiche per scoprire qualcosa a cui a volte non si pensa: sui resti dei polimeri infatti si “attaccano” molecole di pericolosi contaminanti, come metalli pesanti o Pcb, che poi una volta uniti alle microplastiche finiscono inghiottiti dai pesci. «Quelli che mangiamo». Se riuscirà a raccogliere prove scientifiche sufficienti farà suonare un nuovo e importante campanello d’allarme.
Fornire ricerche che illuminino i politici sulla grandezza del problema è lo scopo anche dei giovani ricercatori di Plastic Busters, progetto europeo che vede l’Università di Siena in prima linea nel monitoraggio del Mediterraneo. Per loro parla Cristina Panti, 38 anni, esperta che ha lavorato a decine di progetti, dalle analisi delle plastiche sulle balenottere di Pelagos sino allo studio sui polimeri dei materiali biodegradabili. «Quello che facciamo è raccogliere dati, come nelle aree marine protette, e portarli a chi deve decidere: forniamo la “prova” che è necessario agire subito per un cambiamento». Nell’80% dello stomaco dei capodogli che ha studiato c’erano rifiuti di plastica. «A volte chili. E pensare che si nutrono soprattutto in profondità».
Per questo laggiù, negli abissi, Marcello Calisti calerà il suo “granchio”. Ha inventato un piccolo robot a sei gambe «che cammina ma non nuota, progettato per scendere fino a 200 metri e telecomandato: prende campioni ma può anche ripulire i fondali dalla plastica», dice il 34enne ricercatore di BioRobotica della Sant’Anna di Pisa. I primi test li ha fatti all’Elba, ma poi servivano fondi: ora grazie al finanziamento della ditta Arbi può spingersi in profondità. «Sotto ci sono dei cimiteri di plastica, fanno paura» dice. Ma la paura si combatte: «Voglio riportarla su e mostrare a tutti quello che stiamo davvero facendo al mare».