Nel Lazio, a Colleferro, il gruppo Avio produce razzi che portano l’Europa in orbita. Alti trenta metri, sono il frutto di sei mesi di lavoro per sei minuti di volo alla velocità di sette chilometri al secondo. L’Italia è una potenza aerospaziale
A UN CERTO PUNTO l’ingegnere aerospaziale rallenta, con calma, fino ad arrestare la jeep. «Li hai visti i fagiani?». Pian piano fa retromarcia, scruta nel boschetto con l’espressione estasiata e infantile di un birdwatcher. Dai finestrini entra una brezza che sa di fiori selvatici, la campagna laziale sonnecchia nel sole di maggio. «Eccoli! Guarda là, c’è anche una lepre». Poi riprendiamo senza fretta la strada verso il compound dei nuovi P120C, i motori monolitici a propellente solido da 143 tonnellate che funzionano come primo stadio dell’ultimo e più potente Vega e da booster per i prossimi Ariane 6: quando verranno sparati a razzo nei cieli della Guyana, dopo 102 secondi di combustione, 7 chilometri al secondo, giusto il tempo di sconfinare nell’infinito e s’innescherà il motore successivo, una staffetta di fuoco lanciata per portare a destinazione il prezioso scrigno, uno o più satelliti che saranno collocati in orbita con un margine d’errore di pochi centimetri. Curioso che dove si costruiscono razzi e si frequentano dimensioni extraterrestri, i ritmi siano quasi da vita campestre; anche al Goddard Space Flight Center, il centro avanzato della Nasa tra le colline del Maryland, vedi gente con la mug (tazza) in mano in contemplazione sotto le querce o circolare fischiettando sui prati intorno ai capannoni. Forse per entrare in confidenza con il cielo ci vuole un certo spirito, vale per i monaci come per gl’ingegneri. Dopo due giorni trascorsi all’Avio di Colleferro, bianco e superprotetto complesso industriale immerso in mille e cento ettari di verde a trenta chilometri da Roma, si esce pieni di pace, ma anche assai confusi: stiamo entrando in Italia oppure abbiamo appena lasciato un’enclave di eccezionale italianità? Perché qui, per dire, è dove si lancia in orbita l’Europa. E i francesi, come ai tempi di Bartali, un po’ s’incazzano, perché nonostante la loro lunga esperienza maturata con il nucleare e la missilistica militare, devono fare da gregari alla leadership spaziale italiana in Europa in fatto di lanciatori per satelliti. E i tedeschi non toccano granché palla, il gap tecnologico è di almeno dieci anni, non vanno oltre la fornitura di alcune parti in acciaio. Tant’è che Avio, 850 dipendenti e un portafoglio ordini di quasi un miliardo di euro, nel programma Vega (il lanciatore leggero di satelliti fino a duemila chili), è capocommessa di 40 aziende di 12 Paesi sotto l’ombrello dell’Ente spaziale europeo. E se nel settore dei vettori aerospaziali (mercato da sei miliardi di euro) è ormai concorrente di colossi come l’americana Space X di Elon Musk o della russa Soyuz è perché ha stabilito il record assoluto di 11 lanci perfetti consecutivi dal volo inaugurale nel 2012. «Qui non esistono margini d’incertezza e seconde chances», dice l’ingegnere Antonio Genovese, 52 anni: «Non possiamo sbagliare. Dobbiamo essere sempre perfetti, una squadra condannata a vincere. Hai presente i trecento di Leonida?».
L’IMPRESSIONE, passando da uno stabilimento all’altro, seguendo il processo di costruzione delle sue varie componenti, è che il razzo sia fatto a mano. Una Ferrari verticale, alta alla fine trenta metri, come un palazzo di dieci piani. Con un destino più effimero, sei mesi di lavoro per sei minuti di volo. Nella cleanroom del quarto stadio – la parte terminale del Vega che ospita il modulo superiore per il posizionamento in orbita e il controllo dell’assetto, cioè il cervello del lanciatore stimolato da 170 sensori – i tecnici in camice bianco praticano saldature da orologiai e radiografie in grado di scovare un capello: «Basterebbe per compromettere tutto», dice Sara Cossetti, ingegnere uscita da poco dalla Sapienza. Racconta che Vega ha messo in orbita i satelliti di Google e Cubesat, che è dedicato soprattutto all’osservazione della Terra, per il programma europeo Copernicus misura inquinamento, temperatura dei mari, il rischio di alluvioni, segue il flusso dei migranti dall’Africa nel Mediterraneo: «Se l’Europa non dipende più dal sistema Gps americano è perché abbiamo finalmente creato una struttura di posizionamento autonomo».
ORGOGLIO ITALIANO ED EUROPEO si fondono, e il razzo diventa metafora politica in un momento in cui l’Unione ha il motore ingolfato. Sull’onda di un 2017 da record – quotazione in Borsa, utile cresciuto di sette volte in un anno, 344 milioni di fatturato (fra gli azionisti c’è anche Urbano Cairo, editore del Corriere della Sera) – Avio ha costruito un nuovo impianto da 10 mila metri quadrati per i nuovi motori. «Qui tutto è fatto in casa», dice Massimo Epifani come se presentasse la lista dei dolci. Ingegnere di 50 anni, è appena rientrato alla base dopo un lustro negli impianti aziendali in Guyana. Il serbatoio, cioè l’involucro che contiene il propellente solido, è in fibra di carbonio: appesi come giganteschi rocchetti, i cilindri di 12 metri vengono avvolti da filamenti di carbonio impastati con una resina speciale studiata negli stabilimenti di Airola, nel Beneventano. Pesano quattro volte meno di quelli in acciaio, tutti chili risparmiati a vantaggio del carico di satelliti, che oggi sono sempre più baby, a volte della grandezza d’una biglia. «Anche la gomma che fa da isolante termico tra l’interno a 3.000 gradi e l’esterno a -80 è brevetto nostro, così come, ovviamente, i materiali compositi per impastare il propellente sono frutto di trent’anni di sperimentazioni e del 30 per cento d’investimento destinato ogni anno alla ricerca». Se le cose funzionassero come nell’industria spaziale l’Italia sarebbe un altro pianeta. «In questo campo si è fatto davvero sistema, il nostro Paese occupa un ruolo di vertice nel mondo in ogni segmento, sappiamo produrre satelliti, gestire i servizi captati da terra, costruire lanciatori», dice a 7 l’amministratore delegato di Avio, Giulio Ranzo. Un esempio, spiega, anche la collaborazione tra Avio e Thales Alenia Space Italia per lo sviluppo del sistema Space Rider, un veicolo di rientro con capacità di recuperare i satelliti e di svolgere attività scientifiche in microgravità. L’Agenzia spaziale italiana ha funzionato da business angel, e oggi l’investimento pubblico nel settore è un quarto dei ricavi. Le 600 aziende italiane (6.000 posti di lavoro) fanno squadra e se la giocano nella space economy, un mercato globale da 350 miliardi di euro.
«OGNI LANCIO LO GUARDIAMO in diretta sul maxischermo», dice Genovese. «Ci si commuove ogni volta, in fondo è quello che ognuno di noi sognava di fare da bambino no? Vedi questi ragazzi? Sono il nostro reparto d’élite». Media 28 anni, volti e fisico da giocatori di rugby, sono gli addetti alla costruzione degli ugelli, le “marmitte” dei razzi che sembrano gigantesche campane, come quelle che si producono ad Agnone, solo che queste sono in carbonio e spaccano i timpani agli angeli. «Il massimo della tecnologia, perché trasformano l’energia chimica degli scarichi di propellente in energia meccanica, cioè portano la velocità in un attimo da pochi metri al secondo a mille metri al secondo». Quindi riprendiamo il jeeppino e, a passo d’uomo, gomito fuori dal finestrino, attraversiamo un altro tratto di campagna, fitta di papaveri e ginestre. «Mi piace l’erba alta che fa le onde nel vento», dice l’ingegnere.
Marzio G. Mian, Corriere.it