Aveva 92 anni ed era uno degli ultimi sopravvissuti alla Shoah. Anche negli ultimi anni della sua vita incontrava gli studenti per raccontarsi
Si è spento a Roma, all’età di 92 anni Alberto Mieli, voce instancabile della memoria, uno degli ultimi sopravvissuti alla Shoah. Non ha mai smesso di raccontare, e malgrado l’età Alberto, che tutti conoscevano come “Zì Pucchio”, anche negli ultimi anni della sua vita incontrava gli studenti per consegnargli la sua memoria. «Raccontare è un dovere nei confronti dei miei compagni che non sono più tornati, – diceva – è un dovere far sapere ai giovani ciò che accadde in quei lager. Una persona che non ricorda o che non vuol ricordare non è un uomo».
Era nato nel ’25, e con i suoi genitori e i fratelli viveva nel quartiere romano di Garbatella. Presto arrivarono i tempi duri, con le leggi razziali il padre fu costretto a smettere di lavorare. Di quel periodo il ricordo più doloroso era quando lo cacciarono dalla scuola perché di religione ebraica, «un giorno la maestra mi accompagnò dal preside, mi disse che dal giorno successivo non potevo più andare a scuola per motivi “ministeriali”. Vidi questo signore, perché signori si è per l’animo più che per ricchezza, piangere, e le lacrime gli scorrevano sulla barba bianca».
Alberto riesce, assieme alla famiglia, a sfuggire la retata nazifascista degli ebrei romani il 16 ottobre 1943, ma nell’aprile del ’44 viene preso da un gruppo di sette uomini, tre nazisti e quattro fascisti in borghese. E’ così che inizia il lungo viaggio, un cammino denso di terribili tappe alle quali riesce miracolosamente a sopravvivere: dopo un mese di carcere a Regina Coeli, i fascisti lo trasferiscono al campo di Fossoli e da li ad Auschwitz. Sin dall’arrivo in quell’inferno Alberto vede intorno a sé la violenza nazista e la morte, dopo verrà portato a Sosnowitz, terribile sottocampo di Auschwitz, dove in condizioni spaventose viene costretto a lavorare alla “ristrutturazione”.
Scampa alle continue selezioni, e viene trasferito in una fabbrica di armi, poi al campo di Mauthausen e infine a Gusen, dove sarà liberato dagli americani. E’ li che durante un bombardamento americano è ferito a bruciapelo a una gamba dalle raffiche di mitra di un SS. «Fui così portato in infermeria, con la gamba fasciata di carta igienica, perché per noi deportati non esisteva altro per disinfettare. – raccontava – La gamba rischiava di andare in cancrena, allora un medico spagnolo mi dette un bastoncino da stringere forte tra i denti e mi operò senza anestesia».
Gli americani liberarono il campo quando Alberto era ancora in infermeria: «Con loro arrivarono lenzuola bianche, penicillina e soprattutto cibo, tanto cibo. Fummo rimpatriati sui treni. Io pesavo 29 Kg. Il ricongiungimento con la mia famiglia fu un’emozione grandissima: erano tutti sopravvissuti, la gente delle case popolari alla Garbatella nascose i miei 7 fratelli e mio padre, che aveva perso il lavoro alla dogana appena entrate in vigore le leggi razziali, se la cavò insieme a mia madre». Di cicatrici provocate durante la prigionia “Zì Pucchio” ne aveva tante, ma valsero in qualche modo «il ricordo delle lacrime di mia madre quando mi vide tornare da lei» spiegava.
Per la sua forza e il coraggio di raccontare gli fu conferita nel 2015 dall’università di Foggia la laurea honoris causa, iniziativa nata dalla richiesta di una scuola in Puglia, dove Alberto per anni ha incontrato i “suoi” studenti.
Ariela Pattelli, La Stampa