Il giudice per la prima volta ha fissato un’età oltre la quale i figli devono essere considerati “maturi” e formati
Quando due persone decidono di mettere al mondo un figlio, sono consapevoli (o almeno dovrebbero esserlo) di addentrarsi in una selva di responsabilità, diritti, doveri strettamente legati alla qualità di genitori e al, legislativamente tutelato, rapporto di filiazione. Tra i tanti, i genitori sono chiamati al dovere di mantenere la prole, garantendole un adeguato sostentamento economico. Ed è questo un obbligo consolidato che ritroviamo – oltre che nel codice civile – anche nella nostra Costituzione. Dunque ritenuto fondamentale al pari di quello di educare, di istruire e di assistere la prole.
I genitori, in altre parole, sono chiamati a mantenere i figli, anche dopo il raggiungimento della maggiore età, fintanto che non diventino economicamente autosufficienti, vale a dire sino a che non siano titolari di redditi corrispondenti alla professionalità acquisita, in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato.
E non assume rilevanza, nella valutazione dell’autosufficienza economica del giovane, il tenore di vita condotto nel contesto familiare di riferimento: un reddito continuativo e conforme al percorso formativo svolto, anche se non particolarmente elevato, è da ritenersi sufficiente a giustificare la cessazione dell’obbligo di mantenimento genitoriale.
Il costante richiamo della legge e della giurisprudenza al concetto di “indipendenza economica” dovrebbe togliere ogni dubbio circa la durata dell’obbligo di mantenimento verso figli: non un dovere senza termine e, dunque, vigente per tutta la vita del “pargolo” bensì un obbligo con data di scadenza. Ma il criterio “scivoloso” dell’autosufficienza economica è l’unico al quale ci si può e deve ancorare per individuare il limite all’obbligo di mantenimento dei figli?
Se si guarda alla giurisprudenza consolidata e, oggi dominante, la risposta sembrerebbe affermativa. L’interpretazione del dovere di mantenimento gravante sui genitori e l’individuazione dei suoi limiti hanno, infatti, sempre ruotato esclusivamente intorno al concetto di indipendenza economica “del discendente”.
Così, per esempio, è stato negato il diritto al mantenimento alla figlia maggiorenne che, senza giustificato motivo, ha rifiutato le proposte lavorative del padre; ugualmente alla figlia ventiquattrenne che si è dimostrata, durante il percorso universitario, una studentessa svogliata e negligente; o, ancora, al figlio ventiseienne in possesso di un autoveicolo di potente cilindrata che ha svolto attività lavorativa, in forma di collaborazione continuativa, poi cessata. Improvvisamente, però, in questo immutato contesto interpretativo, si è inserita una innovativa pronuncia del Tribunale di Milano che, svincolandosi dal caso concreto e rompendo con i precedenti giurisprudenziali, ha individuato – per la prima volta – un nuovo criterio generale e astratto al quale ancorare il termine finale del mantenimento: l’età del figlio.
In particolare, dovendo giudicare un adulto quarantunenne mantenuto e (si può dire) beatamente accomodato tra le pareti della casa familiare (emblema tipico dell’oggi diffuso fenomeno dei “bamboccioni”), il giudice di merito ha ritenuto che non sussistesse più il suo diritto al mantenimento, posto che erano venuti a mancare i presupposti di legge sui quali si fonda, vale a dire l’esigenza di portare a compimento un percorso educativo e formativo. Esigenza che, a parere del giudice milanese, deve ritenersi necessariamente vincolata a un intrinseco limite di età (precisamente, i 34 anni), raggiunta la quale non è più possibile parlare di “progetto educativo” da compiersi. Il Giudice ha giustamente sentenziato che “oltre la soglia dei 34 anni” il mantenimento diviene “un vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani”; in questo modo il Tribunale ha identificato nell’età anagrafica del “pargolo attempato”, il parametro al quale riferirsi per liberare la casa familiare dagli eterni “Peter Pan”.
Comunque sia, sino a quando in tutte le aule di giustizia nazionali non verrà considerato dirimente all’obbligo di mantenimento il criterio dell’età del figlio (valutata, in base a indici statistici nazionali ed europei, al mutare delle necessità sociali), ai genitori impossibilitati o semplicemente stufi di provvedere al mantenimento della prole vintage, verrà richiesto di provare la raggiunta (o anche solo possibile) autosufficienza economica del figlio. Anche se quarantenne.
Certo è che il problema sarebbe eliminato alla fonte se si facesse tesoro di quello che sostiene lo scrittore statunitense Frank A. Clark, vale a dire che “la cosa più importante che i genitori possano insegnare ai figli è come andare avanti senza di loro”.
Maria Antonietta Izzo, Repubblica.it