I luoghi di riferimento della comunità italiana non sono più quelli descritti dai film. Un reportage negli indirizzi della Grande Mela che parlano – e mangiano – italiano. Seguici anche su Facebook
C’era una volta Little Italy, il quartiere italoamericano più famoso d’America, casa di migliaia di italiani emigrati qui dalla fine dell’Ottocento agli anni 50, ultima ondata migratoria massiccia. Fu in quella porzione nella Lower East di Manhattan che si stabilirono gli italiani, soprattutto del Sud: i siciliani a Elizabeth Steet, Mulberry street diventò la strada dei napoletani mentre a Mott Street ci abitarono calabresi, pugliesi ed emigrati dalla Basilicata.
Oggi quel poco che resta di Little Italy è il risultato di uno spostamento di massa degli italiani di seconda e terza generazione, a partire già dagli anni 70, in cerca di spazi più grandi e quartieri residenziali, dello sconfinamento a nord di Chinatown, iniziato dieci anni fa, dell’espansione di Soho a Ovest e del processo di gentrificazione. Il tricolore delle bandierine e i menù italiani esposti per attrarre turisti si mescolano a zuppe vietnamite e dumpling cinesi, tra sentimenti di nostalgia e folclore. Tappa immancabile ma a tratti anche eccessivamente turistica, Little Italy resta comunque un pezzo di storia italiana a New York, entrata a pieno diritto anche nell’iconografia culinaria. C’è anche sapore di autenticità e di resistenza nei confronti di un inevitabile processo di cambiamento.
Simbolo di questa resistenza è Di Palo, cinque generazioni che raccontano la storia dell’emigrazione italiana a New York in quello che oggi è il negozio di specialità alimentari e gastronomia più famoso della città, che vanta clienti affezionati come Martin Scorsese e lo chef Daniel Boulud. Tutto iniziò con Savino Di Palo, il bisnonno di Lou, arrivato dalla Basilicata nel 1903 a New York per aprire una latteria a Mott Street e iniziare la produzione quotidiana della mozzarella, che oggi i nipoti Lou, Sal e Marie continuano a tramandare, insieme alla moglie Concetta. “Negli anni 70″ dice Lou, volto mediatico della famiglia e instancabile ambasciatore del Made in Italy, “abbiamo assistito ad uno spopolamento di Little Italy da parte delle famiglie italiane. Il quartiere stava cambiando pelle e noi dovevamo prendere una decisione, se andare come gli altri o restare. Fu allora che decidemmo che Di Palo avrebbe dovuto continuare, tra le difficoltà, a diffondere l’autentica cultura culinaria italiana, scegliendo prodotti da tutte le regioni che raccontano la storia di piccole aziende, simbolo dell’eccellenza artiganale del Made in Italy”. Nel negozio Di Palo si può trovare una vasta selezione di formaggi e salumi importati dall’Italia, prodotti alimentari di nicchia, piatti di gastronomia preparati quotidianamente, una selezione di vini italiani nell’adiacente Enoteca e presto, dice Lou, “un nuovo locale dove ci saranno panini in stile italiano”.
A Mulberry Street resiste anche Angelo’s, ristorante storico che dal 1902 continua a servire gli stessi piatti simbolo della tradizione del Sud, napoletana in testa: vongole Posillipo, Cozze Santa Lucia e calamari fritti. A rappresentare la Puglia c’è il ristorante omonimo fondato nel 1919 da Gregorio Garofalo e lasciato in eredità al nipote Joey. Oggi come ieri, Joey continua la tradizione della cucina pugliese portata dal nonno, in un’astmosfera da trattoria familiare, informale, senza fronzoli ma autentica. È invece entrato ormai nella leggenda il Caffè Ferrara, che dal 1892 nel cuore di Grand Street sforna biscotti, paste, italiane, panettoni e cornetti. Vanta il primato del primo espresso bar e della prima pasteria napoletana in città. La famiglia Lepore, la quinta generazione al timone, ricorda con orgoglio il bisnonno Enrico Scoppa, fondatore del Caffè, e il celebre tenore Caruso, tra gli avventori del posto. Altra tappa classica è il Caffè Palermo, casa del re dei Cannoli. Lui è Baby John, si fa chiamare “Cannoli King” e dal 1943 prepara cannoli siciliani per turisti, clienti e celebrità come Clint Eastwood, Donna Summer, Tommy Hilfiger.
Trionfano i sapori del Sud a Little Italy, ma a difendere la tradizione gastronomica del Nord ci pensa Forlini’s, ristorante di terza generazione oggi gestito dal nipote Giuseppe, in continuità con il menù di gnocchi, panzerotti e tortelli voluto dal nonno piacentino. A rompere con la vecchia scuola di pensiero culinario italiano a Little Italy, quella che qui chiamano “the old Italian school” e “red sauce”, ci ha pensato nel 1999 Frank De Carlo, con il suo ristorante Peasant, nel quartiere di tendenza a Nord di Little Italy elegantemente ribattezzato Nolita. Frank, americano di nascita ma napoletano di origine, si forma nelle cucine della Puglia, dove impara a cucinare nelle pentole di terracotta, prima di passare a quelle di Little Italy. È qui che capisce la vera tradizione italiana, quella della cucina povera, rustica ma autentica, che diventata il manifesto del suo ristorante. “Il menù di Peasant – dice Frank – rappresenta le ricette di tutta Italia, soprattutto quelle allo spiedo come il porcetto sardo. Stagionalità, ingredienti italiani e sapori veri, sono le basi della mia cucina. Dalla razza con capperi all’orata alla griglia, l’agnello con polenta e gli spiedini alla pollastra. Una sorta di ristorante farm to table come si dice qui”.
Si dice, però, che la vera Little Italy sia nel Bronx, nella zona chiamata Belmont, e precisamente ad Arthur Avenue, quartiere non ancora toccato dal processo di gentrificazione, dove gli italiani si sono stabiliti negli anni 50. Lo sanno i newyorchesi e gli abitanti degli stati limitrofi e, negli ultimi anni, lo sanno anche alcuni turisti che si avventurano fino alla 187esima strada per comprare la mozzarella fresca, il pane appena sfornato, la frutta di stagione e la salsiccia italiana come si faceva una volta. A preservare e tramandare l’italianità nel Bronx è lo spirito di forte tradizione e senso di comunità che qui, più che altrove, gli italiani hanno mantenuto e tramandato alle nuove generazioni. “Dal Bronx non c’è stata una fuga di massa – dice Marco Coletta chef romano del ristorante Tra di noi -, e le nuove generazioni tornano anche solo per mangiare e fare la spesa”. Marco in Italia ha cucinato come chef privato per molti vip, inclusi Sofia Loren, e nel Bronx si fa portavoce di “una cucina italiana autentica, vera, che in Italia sembra stia scomparendo perché si deve per forza sperimentare”. “Chi viene qui- dice Coletta– è alla ricerca dei sapori di una volta come la trippa alla romana e il pollo alla cacciatora”.
Toccherà al Bronx l’ennesimo processo di gentrificazione e di inglobamento che potrebbe cambiare il volto della geografia etnografica? “Speriamo di no” dice Pina Belfiore, arrivata qui nel 1975 con la famiglia da Piedimonte etneo, in provincia di Catania, antropologa culturale e nota consulente nel settore della ristorazione americana. “L’atmosfera che si respira da queste parti è unica. Sembra di essere in uno di quei paesini siciliani dove vai a fare la spesa e il tuo macellaio ti consiglia che taglio prendere, mentre il fruttivendolo che conosci da una vita ti ha messo da parte una pianta di basilico e prima di andare a casa vai a ritirare la pasta fresca. Little Italy nel Bronx conserva intatta l’atmosfera delle piccole botteghe italiane, quelle dove trovi tutto e hai un rapporto di fiducia con il proprietario, la gente per strada si ferma a parlare e quando ti siedi al bar ti sembra di essere in Italia”.
Siamo lontani dal frastuono delle luci e dei suoni di Manhattan, nella celebre via si respira il profumo del pane fresco di Terranova e Madonia, i due famosi panifici, si possono comprare le tipiche merendine italiane insieme ai nuovi prodotti di nicchia. In alcuni negozi si trovano addirittura le ceramiche e una buona rappresentanza della tipica chincaglieria italiana. Tutto nel quartiere che ha dato i natali e cresciuto l’attore Chazz Palminteri, lo scrittore Don DiLillo e dove Joe Pesci ha iniziato la sua carriera da attore dopo essere stato scoperto da Robert De Niro proprio in uno dei ristoranti di Little Italy Bronx dove lavorava come maître.
Liliana Rosano, La Repubblica