La musa a cui non ho osato confessare il mio amore
Chiusa 12 anni in un manicomio perché diversa, diceva: «La felicità è la miglior vendetta». Fortissima e fragilissima allo stesso tempo, per me è ancora la donna dei sogni
(di Cesare Lanza per LaVerità) Quando, qualche mese fa, ho cominciato a scrivere questi ricordi mi ero ripromesso di far riferimento, con sincerità, agli incontri che avevo avuto e alle mie conoscenze dirette. Da Amintore Fanfani a Giulio Andreotti, da Bettino Craxi a Francesco Cossiga, a Leonardo Sciascia, ai due fratelli Gianni e Umberto Agnelli e ai Rizzoli e a tanti altri: esistono molti libri per raccontarne la vita. Ho pensato che una testimonianza personale, e sincera, potesse essere di qualche interesse per i lettori. E spero che così sia stato.
Oggi però la sincerità non è sufficiente, sento che dovrò andare oltre; oltre il pudore, oltre ogni possibile, per me, sfrontatezza; e sarà una liberazione. Lo devo finalmente a lei, Alda Merini, ma anche a me stesso. Ho incontrato poche volte, fuggevolmente, questa divina poetessa. Una sola volta con un po’ di tempo e di calma, a tu per tu, quando accettò di venire in un bel programma di Paolo Bonolis, Il senso della vita, per un’intervista che si rivelò di insolita verità.
Ed ecco la mia confessione, sperando che nessuno ne rida. Ero innamorato di lei, ma non ho mai avuto il coraggio di dirglielo. Mai. Pur avendone avuto l’opportunità, il coraggio mi è sempre mancato. Ecco cosa avrei voluto dirle, e qui lo scrivo, forse ingenuamente, ma non voglio morire tenendo dentro di me questo rimpianto (detesto i rimpianti), questo intimo segreto. «Alda», avrei voluto dirle, «consentimi di rivelarti che, semplicemente, io sono innamorato di te. Le tue poesie mi entrano nella pelle, restano nell’anima: sono carezze e tenerezze, schiaffi e pugni. Mi torturano e mi esaltano. Ma non è solo la poesia che mi ha sedotto». E se lei – questo è il mio film privato, che mi sono raccontato per anni – mi avesse chiesto che cosa provassi al di là della poesia, le avrei risposto così: «Mi perdonino le donne che generosamente mi hanno dato il loro amore: brevemente, per qualche ora, o per lunghi anni. Ma la donna che ho sempre sognato è una donna come te: fortissima, ma anche fragilissima, come nessuna mai. Hai resistito a 12 anni di manicomio, pochi ci sarebbero riusciti. E ti hanno trascinato in manicomio senza capire la tua sensibilità, alla radice delle tue infinite e struggenti fragilità». Poi, immaginavo che la poetessa mi avrebbe osservato con quello sguardo profondo e malinconico che metteva i brividi e avrei concluso: «So bene, Alda, che non avrei potuto mai conquistarti. Ricordo bene ciò che hai scritto una volta: “Nessuno può illudersi di prendere in pugno un poeta, gli sfuggirebbe sempre tra le dita”». Mai sono stato capace di mormorarle queste parole. Solo una volta, prima dell’intervista con Bonolis, mi spinsi a chiederle perché l’amore fosse così importante per lei. Ero emozionato, le mani mi tremavano. Alda mi osservava e mi disse: «Forse anche per lei, no?».
Ora però vorrei lasciare da parte il mio sentimento occulto, l’innamoramento virtuale. Ne parlai una volta con un mio caro e colto amico, forse il solo capace di comprendere. «Certo», mi disse, «è l’elaborazione della tua ammirazione per la sua poesia e, te lo concedo, anche per la sua vita. Ma come puoi pensare che possa essere l’amante, reale, nella vita?». Questo non lo so, gli risposi, ma più o meno ho sempre sentito che poteva succedere. C’è una sua frase che dà valore al mio delirio: «La libertà di un uomo si misura dall’intensità dei suoi sogni». Forse ero intenerito per le ingiustizie che ha subito, e per la reazione dolce e tollerante che ha avuto, nonostante la sofferenza. «Quali ingiustizie?», mi chiese il mio amico, con una severa freddezza che mi sorprese, ma poi aggiunse: «Voglio semplicemente capire». «Nella vita, indubbiamente, il manicomio. Dodici anni di manicomio, ricoveri, un continuo entrare e uscire, ma solo per qualche giorno, un’illusione ricorrente e terribile: come hanno raccontato le figlie, in maniera lucida e straziante, dopo la sua morte. Chiamare un’ambulanza e liberarsi della sua scomoda presenza. Era il modo più semplice, drastico e brutale per affrontare i suoi eccessi. Sono convinto che Alda, essenzialmente, fosse bipolare. Tutto qui! Una malattia grave ma curabile: con farmaci e terapie da seguire con costanza e con pazienza».
Invece si è rischiato di massacrare, di annullare, il più grande talento che l’Italia abbia avuto nella letteratura per quanto riguarda la poesia femminile. Un immenso talento. Mi viene da sorridere quando sento o leggo che Alda Merini fu presa in considerazione per il premio Nobel. È qualcosa che viene scritto in buona fede. Ma sorrido perché, in realtà, fu vittima di una grave ingiustizia, molte volte avrebbe meritato, strameritato il premio, rispetto a coloro che lo ottennero. Vero è che il Nobel, come ho già scritto in altre occasioni, dopo essere stato assegnato a Dario Fo e Bob Dylan, non ha più il carisma di un tempo. Comunque sia, una volta, Alda disse: «Rifiuterei: in Svezia fa troppo freddo».
Era nata a Milano il 21 marzo 1931, il primo giorno di primavera (undici anni prima di me). Una creatura subito segnata da una particolare, straordinaria sensibilità e dalla vocazione alla poesia. Fin da quando era adolescente, prima ancora che compisse 15 anni, ai suoi versi si interessarono Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo e un nume della cultura, Giorgio Manganelli. Ma proprio nell’adolescenza, l’età più delicata, Alda fu soffocata dalla depressione, un’invincibile malinconia, sopraffatta com’era dalla convinzione che la vita fosse priva di senso. E lì cominciò il suo calvario. L’incomprensione, l’emarginazione, l’esclusione, l’annullamento esistenziale. Quando venne da Paolo Bonolis, mormorò con candore, emozionante lievità, questo pensiero che a memoria ricordo così: «Il demonio mi ha preso e mi ha trascinato all’inferno… Ma un poeta deve saper accogliere il bene e il male: il dolore e la gioia fanno parte della vita, sono incomprensibili… Poi il demonio forse si è impietosito e mi ha lasciata andare». Ho già scritto la mia convinzione che il suo malanno fosse solo una forma di bipolarismo. Non si ha notizia di episodi straordinari, di violenza o di altre minacciose, pericolose manifestazioni di sé. Il male di Alda era la sua diversità, era brutalmente considerata matta da chi aveva paura della sua diversità: l’alternanza tra gli eccessi della voglia di vivere con gioia e quelli autodistruttivi della depressione. La diversità! Che ancor oggi fa paura e ci induce a respingere; non a capire e spiegare. Non aveva limiti né pudore, si faceva vedere nuda; se ti riceveva nella sua casa umile sui Navigli ti offriva tutto ciò che aveva, vino, biscotti, indumenti, ricordi; si esprimeva in termini estremi. E suscitava paura, questo era il suo male. («Ho cominciato a piangere per gioco e poi ho creduto che questo fosse il mio destino»). Vengono i brividi, oggi, al pensiero di come fu trattata. Le furono inflitti 46 elettrochoc! Scariche elettriche da 180 a 400 volt, che tolgono ossigeno al cervello. Nei versi della raccolta La Terra Santa (1984) si può leggere il racconto della sua triste odissea: per me i passaggi più coinvolgenti sono i riferimenti ai suoi compagni di sventura. («Il male è diventato un fuoco incandescente, è diventato poesia, amore per gli altri»). Sentimenti nobili. Pietà, comprensione, compassione, solidarietà, amicizia. Ricordo, tra le molte frasi che mi hanno turbato o avvinto, quelle sul suo rapporto con la presunta pazzia, la sofferenza negli ospedali psichiatrici. Accettazione, ironia, spirito di sopportazione. «La felicità è la vendetta migliore, niente colpisce chi ti vuole male più che vederti felice». «La sincerità mi inquieta, il profondo mi uccide». «Sono una piccola ape furibonda». «Non ho più notizie di me da tanto tempo». «Le mosche non riposano mai perché la merda è davvero tanta». La riflessione più bella è forse questa: «Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti sono simpatici, non come i dementi, che sono tutti fuori nel mondo. I dementi li ho incontrati quando sono uscita». «Il Paradiso non mi piace perché verosimilmente non ci sono ossessioni». «Il peccato non si rifiuta mai». «La libertà è il vero peccato mortale per gli uomini. Forse per questo esiste il manicomio». «Anche la follia merita i suoi applausi».
Alda Merini ha amato molto, con passione devastante e con distacco raggelante. Con esaltazione romantica, con ironia («I miei amori sono di tipo randagio»). Credo sia impossibile elencare gli uomini che ha amato e ancor più proibitivo raccontare le storie, attimi fuggenti o lunghe e sofferte relazioni. Penso anche che sarebbe un’impresa volgare: Alda era carnalmente e intellettualmente predisposta ad amare, a sognare di amare ed essere riamata. Penso che chi abbia curiosità di accertamenti sulla sua vita sentimentale incontrerà molte difficoltà nel tentativo di approfondire. Faccio quindi riferimento solo al suo primo marito, un panettiere che non poteva essere alla sua altezza, e all’amore più incredibile e romantico della sua vita, Michele Pierri, di più di 30 anni più anziano: un medico e un poeta che viveva a Taranto. Un amore che sbocciò e si sviluppò al telefono, lunghissime conversazioni, senza conoscersi. Poi si incontrarono, decisero di sposarsi, vissero a Taranto. Il loro appuntamento erotico, il convegno d’amore era ritrovarsi a letto, stesi l’uno accanto all’altra, e recitare a memoria, dedicandosele, poesie famose: le preferite erano quelle di Pablo Neruda.
C’è una frase di Alda Merini che mi eccita e mi incanta, come se lei l’avesse pensata per me: del resto anche questa è la grandezza della poesia, riuscire a suscitare immedesimazione, spingerci a sognare e illuderci che i versi siano rivolti a noi… «Quelle come me sono quelle che, nell’autunno della tua vita, rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti e che tu non hai voluto». No, Alda. Come te non ne ho conosciuto altre. E quanto ti avrei voluto! E quando ti sei spenta, nella tua adorata Milano, il 1° novembre 2009, uccisa da un tumore alle ossa, sei stata onorata da tutti con quell’ambiguo sentimento di colpa da cui la società è colta quando non ha saputo riconoscere e apprezzare, e per di più ha tormentato, i suoi geni in vita. Avrei voluto venire a piangere sulla tua tomba, Alda cara, e lasciarti un biglietto: «Io ti ho amato. In silenzio». Ma neanche questo ho avuto il coraggio di fare.