Sessant’anni, una tabaccheria a Legnano, il 9 maggio Benedetta Visconti dona il 60% del suo fegato alla figlia Barbara, 37 anni, con una gravissima insufficienza epatica.
Per il Niguarda, dove avviene l’intervento, è il 100° trapianto di fegato da vivente
La richiesta arriva a sorpresa e lascia tutti ammutoliti: «Glielo posso donare io?». La spingono la forza dell’amore di una madre e una consapevolezza: «Senza Barbara — continua a ripetere — io non potrei vivere». Quando dodici giorni fa Benedetta Visconti entra in sala operatoria non pensa ad altro: «Sembra che abbia aspettato tutta la vita questo momento», dice Andrea De Gasperi, l’anestesista che l’accompagna. Lei conferma serena: «È come se l’intervento chirurgico dovesse farlo un’altra persona». Eppure i rischi ci sono; e l’impatto psicologico non è da sottovalutare, tanto è vero che per arrivare fin qui ci vuole anche il via libera di un giudice.
Sessant’anni, una tabaccheria di famiglia a Legnano, il 9 maggio Benedetta Visconti dona il 60% del suo fegato alla figlia Barbara, 37 anni. È il gesto di generosità estrema di una mamma per la figlia con una gravissima insufficienza epatica. Per il Niguarda, dove avviene l’intervento, è un traguardo importante: per la prima volta in Italia un ospedale raggiunge i cento trapianti di fegato da vivente, tra le operazioni più complesse che ci siano sia dal punto di vista tecnico sia per gli aspetti bioetici.
Il primo è avvenuto il 16 marzo 2001 ed è stato anche il primo a livello italiano. Allora è un figlio 32enne a donare il fegato al padre sessantenne. Nessuna legge al quel tempo disciplina esattamente la materia. Così per eseguirlo è necessario il benestare dell’allora ministro della Salute, Umberto Veronesi. «Per quel tipo di trapianto in Italia non c’era ancora un’autorizzazione formale — ricorda Luciano De Carlis, alla guida della Chirurgia dei trapianti —. Il figlio mi dice che lui e suo padre sono pronti ad andare in Germania per fare l’intervento. Allora il ministero ci dà un’autorizzazione speciale. Non mi dimenticherò mai la telefonata con Veronesi, alle 9 di sera. Ci chiede più informazioni sul caso arrivato sulla sua scrivania. E aggiunge: ve la sentite? Il giorno dopo è tutto pronto nelle due sale operatorie».
Sedici anni dopo, è ancora il Niguarda in prima linea a livello italiano. Con un nuovo record. Due équipe — da nove professionisti ciascuna — eseguono contemporaneamente gli interventi: il prelievo e il trapianto. Quattro ore di sala operatoria per mamma Benedetta, otto per Barbara, la figlia che fino all’ultimo non vuole un simile sacrificio della madre. «Me l’ha tenuto nascosto fino alla fine: tutti gli esami per capire la compatibilità immunologica e morfologica li ha eseguiti di nascosto. Senza mai dirmi nulla — racconta —. L’ha voluto fare perché io ero in lista d’attesa per un trapianto da cadavere, ma mi sono aggravata a tal punto da rischiare la vita. Me l’ha ridata lei, per la seconda volta». Sottolinea De Gasperi, a capo dell’Anestesia e della Rianimazione 2: «Abbiamo studiato la compatibilità, sotto tutti i punti di vista, sia genetico sia anatomico, ed abbiamo constato che poteva essere la soluzione ideale». Adesso Barbara, nella stanza 43 del reparto ad alta intensità di cure, guarda al futuro: «Finalmente ho ritrovato la speranza».
di Simona Ravizza, il Corriere della Sera