di Cesare Lanza
Fu la mente dietro la «marcia dei 40.000» che mise fine al dominio dei sindacati in Fiat Sceso in politica per riformare l’Italia e la De, abbandonò l’illusione nel giro di tre anni
Più intelligente? Più serio? Più infelice? Mi piacerebbe, scrivendo di Umberto Agnelli (1934-2004) scegliere l’aggettivo più opportuno, anche in un inevitabile confronto con il celebre fratello, Gianni, più anziano di 13 anni. «È proprio questo l’errore», mi ha detto un amico, che ha lavorato in Fiat e ha conosciuto bene i due Agnelli. «Il confronto è ingiusto, improponibile. Basta dire che Gianni era un uomo di prima della seconda guerra mondiale, Umberto invece del dopoguerra». Rispettabile opinione. Ma ho conosciuto i fratelli e penso che Umberto sia stato un personaggio più intelligente, positivo e più serio di Gianni, forse meno infelice. Perché? Certo la mia conoscenza è stata limitata, ma non superficiale. Ho incontrato l’Avvocato una decina di volte, pochissimo Umberto, però in un’occasione molto significativa, quando si candidò al Senato. Umberto era molto lucido, profondo, realista, con qualità strategica. Gianni era impulsivo, pronto a semplificazioni brillanti 0 ciniche, deformate dallo snobismo. Umberto non portava la cravatta sopra il pullover, l’orologio al polso destro, non si tuffava nudo in Costa Azzurra, non improvvisava battute brillanti…
Ed era molto devoto verso Gianni. Misurato e pronto a restare un passo indietro o a defilarsi. Quanto all’essere infelice, sono convinto che Gianni lo fosse, e in misura grave. Il suo incubo costante – la noia – era sotto gli occhi di tutti. Dopo qualche minuto, mediamente mezz’ora, al massimo un’ora, in qualsiasi situazione, la noia aveva il sopravvento e il problema, ripetitivo, era la necessità di scacciarla. Un inferno vissuto da vivo. Che l’Avvocato nascondeva con l’approccio affascinante che lo rese popolare nel mondo.
Ma, nel profondo, come doveva sentirsi un uomo che disprezzava gli affetti e l’amore, non aveva (o non mostrava) sensibilità verso le angosce del figlio? E che sapeva non poteva non sapere – che avrebbe potuto fare di più per la sua azienda e per l’Italia, di cui non aveva gran considerazione? Avrebbe potuto, ma non ne ebbe la voglia, forse, certamente no la capacità. Ben altra personalità – soffocata da un’identità in apparenza grigia – aveva Umberto! Era positivo, forte, determinato. E ingenuo, creativo, ottimista.
Lo incontrai nel 1946 quando si candidò nelle file della Democrazia Cristiana. Ero direttore del Corriere d’Informazione. A Torino trovai il giovane Agnelli – aveva 42 anni – in gran forma. Determinato, appassionato ma senza eccessi, sorridente. Non annunciò la discesa in campo. Ma l’intenzione era chiara. Voleva riformare il partito, modernizzare la Dc e di conseguenza l’Italia, introdurre razionalità nella politica economica. Mi trovai di fronte alla prospettiva di decisioni clamorose.
Scrissi tutto in un articolo che andava – avevo cercato di interpretare le mezze parole – al di là del colloquio. Si profilava un obiettivo grandioso: la possibile ascesa fino alla guida della Dc. Mi telefonò un suo collaboratore: «Se il dottore avesse ancora qualche perplessità, ormai il dado è tratto». Ancor prima delle reazioni, della famiglia e degli ambienti politici, aggiungo due riflessioni: Umberto aveva già mostrato con chiarezza, in Fiat, un temperamento innovatore, incline alle riforme, come il celebrato fratello. Ma tutti e due incontravano una forte resistenza, silenziosa, nella barriera di molti dirigenti conservatori capeggiati da Niccolo Gioia, emulo di Vittorio Valletta, artefice della grandezza della Fiat. Poi Valletta era stato messo in pensione quando Gianni era entrato in campo. Ma la filosofia vallettiana, molto restia alle novità, era prevalente in Fiat. Seconda riflessione: si trattava anche di dare un ruolo al settimo dei fratelli Agnelli, l’ultimo dei figli di Edoardo e di Virginia Bourbon del Monte di San Faustino, dopo Clara, Giovanni, Susanna, Maria Sole, Cristiana e Giorgio. Fino alla svolta politica, Umberto aveva avuto incarichi importanti, ma oscurati dalla figura di Gianni, verso il quale aveva una devozione, ribadisco, di sentimenti quasi filiali. Era stato presidente, a soli 22 anni, della Juventus, mantenendo l’incarico fino al 1962; aveva vinto tre scudetti, era stato presidente della Federazione calcio.
Successivamente, era stato leader della Sai, la società assicurativa di famiglia, della Piaggio e della Simca, con una lunga e preziosa esperienza in Francia, che diventò per la Fiat il secondo mercato. Lo spessore del personaggio – incompreso – si evince da altri episodi. Nel 1968 tornò in Italia e diventò il collaboratore più stretto di Gianni. Tentarono e introdussero un radicale smembramento dell’organizzazione di lavoro imposta da Valletta. Dal 1970 al 1976, quando entrò in politica, Umberto era stato anche ad della Fiat, affiancando Gaudenzio Bono, vallettiano, e misurandosi con Gioia, amico di Bono e determinato a succedergli. Tutto ciò che avveniva a Torino era coperto dallo stile felpato, turineis, sussurrato, mai strillato.
Ma al di fuori dell’azienda si vivevano anni che condizionavano tutti, anche la Fiat: la rivoluzione studentesca, la conflittualità sindacale, le Br. Umberto era l’osservatore più intelligente e aveva svolto un eccellente lavoro, con pazienza e tenacia, per convincere tutti che la Fiat era entrata in crisi, e nessuno lo aveva capito. Il governo le remava contro: come non si era mai permesso di fare prima e non avrebbe fatto in seguito. Il retroscena? Alcuni capi della De erano convinti che la Fiat fosse la proprietà occulta dell’Espresso. Il temutissimo settimanale, controllato da Carlo Caracciolo (cognato di Gianni) metteva di continuo sotto tiro la Dc, che attribuì alla Fiat (equazione semplice, ma erronea) una linea antigovernativa.
Conseguenza: fu decretato un blocco dei prezzi, tra cui quello delle auto. La Fiat, in regime di monopolio o quasi, aveva fino ad allora spadroneggiato: per acquistare una Seicento l’acquirente aspettava anche 2 mesi! D’improvviso si trovò in una situazione insostenibile. Ogni macchina che vendeva era in perdita. E dall’estero la concorrenza era devastante. Umberto fu il primo a capire che dietro l’angolo c’era il baratro.
Lo scenario era tremendo: mentre si susseguivano gli attentati (e Torino fu una delle capitali del terrorismo) Umberto si impegnò in una durissima operazione di relazioni con le forze politiche e con i sindacati. Fino alla decisione di scendere in campo in prima persona: Gianni invece, considerato di vocazione repubblicana e amico di Ugo La Malfa, non si era mai deciso a farlo. Per snobismo, indolenza e forse anche perché gli sembrava una perdita di tempo. Le drammatiche prospettive finanziarie furono fronteggiate con l’annuncio dell’ingresso della Libia nel capitale, una quota del 9,7% venduta per 415 milioni di dollari. Inaudito! Muammar Gheddafi era a capo gola che i capitali si vadano a cercare quando non sono necessari». In politica, nelle liste de di Roma, Umberto aveva già conquistato il suo bel posto di senatore, con 50.000 preferenze. Ma non era stata una partita facile. Era stato obbligato a presentarsi a Roma, osteggiato da alcuni big: Carlo Donat-Cattin impedì che la candidatura fosse presentata a Torino, piazza politica del ruvido ministro. E forse fu un bene. A Torino, la popolarità della Fiat era incrinata dalle contestazioni, nel resto d’Italia bastava il nome per indicare un mito. L’esperienza in Senato durò poco, fino al termine di una legislatura molto breve. E le illusioni di riformare politica, Dc e Italia, erano svanite via via.
Ma Umberto si impegnò con serietà, cercando di aggregare giovani emergenti, poi protagonisti di carriere importanti. Fu eletto il 20 giugno 1976 e lasciò il seggio esattamente 3 anni dopo, il 19 giugno 1979. Nel frattempo i 2 Agnelli avevano insediato Carlo De Benedetti alla guida della loro azienda, Umberto era suo amico e coetaneo. Cdb andò perle spicce, dopo due giorni cacciò Gian Mario Rossignolo e Vittorio Chiùsano. Fece ciò che Umberto avrebbe voluto, fare, ma dopo 100 giorni fu estromesso lui, tra varie congetture, tuttora irrisolte. Ed ecco un nuovo tratto di diversità tra i due fratelli Agnelli: Carlo De Benedetti ha raccontato aiFoglio che dopo la sua rottura con la Fiat, lui e Umberto non si sono mai più parlati, mentre incontrava spesso Gianni a Sankt Moritz e ancor più spesso l’Avvocato lo chiamava al telefono («Credo che lo facesse soprattutto come un dispetto a Cesare Romiti»). Da allora in poi l’influenza di Umberto fu decisiva. A cominciare dal licenziamento nel 1979 dei 61 operai, considerati contigui a iniziative terroristiche, all’attacco all’assenteismo e al blocco delle assunzioni. Portò a casa il cedimento sindacale, che diventò una resa dopo la mitica «marcia silenziosa dei 40.000». Luciano Lama e Bruno Trentin avevano tentato una mediazione, Pierre Camiti aveva proclamato «Bravi, ma io in piazza ne porterò 150.000», Giorgio Benvenuto aveva lanciato lo slogan «O la Fiat molla o molla la Fiat». Ed Enrico Berlinguer aveva annunciato che, in caso di occupazione delle fabbriche, si sarebbe schierato a fianco dei lavoratori. Tutto inutile, i quadri non ne potevano più dei picchetti che bloccavano l’azienda. La svolta non era frenabile. Eppure in ballo c’erano 14.449 licenziati, poi trasformati in cassa integrazione. Del successo della marcia silenziosa, organizzata da Enrico Arisio, rivendicò il merito Cesare Romiti. Ma dietro tutto c’era la mano di Umberto, il più attento. E il più silenzioso. Una sola volta si fece sentire a voce alta, quando in un’intervista a Peppino Turani disse che c’era un solo modo per rilanciare la Fiat e il Paese: migliaia di licenziamenti, svalutazione della lira. Si può immaginare il clamore… All’epoca Enrico Cuccia era il regista (cinico, pragmatico, pessimista), a Mediobanca, dell’economia in Italia. Detestava Umberto. Sostenne che la proprietà non dovesse esporsi in prima fila; e alla guida della Fiat impose Cesare Romiti. Fu una grande delusione, per Umberto. Ma aveva il senso del dovere e sapeva accettare la sofferenza. Non solo in azienda. Nel 1997 suo figlio Giovanni Alberto, morì per un male incurabile. E Umberto contenne il dolore, come sempre aveva fatto.
Cesare Lanza, La Verità