Gentiloni non si dimetterà, resterà in carica fino alle urne. L’annuncio della fine della legislatura fra Natale e Capodanno. Si profila uno scenario spagnolo
La legislatura è ai titoli di coda e il capo dello Stato si prepara ad annunciarne la fine tra due settimane esatte, a cavallo tra Natale e Capodanno. L’ipotesi che va prendendo corpo infatti è che Mattarella sciolga le Camere il 27 dicembre, proiettando il Paese verso le urne, previste per il 4 marzo. Sebbene ieri il presidente della Repubblica abbia ricevuto al Colle Gentiloni per il rituale pranzo che precede i vertici europei, il tema non è stato oggetto di discussione. D’altronde non ce n’era bisogno: Quirinale e palazzo Chigi erano da tempo al lavoro e avevano già studiato le procedure per gestire l’appuntamento. L’idea di anticipare il termine della legislatura, che formalmente si concluderebbe in marzo, nasce dalla volontà di preservare il governo da qualsiasi intoppo parlamentare all’indomani dell’approvazione della legge di Stabilità. Gli ultimi sviluppi politici, la disaggregazione di gruppi della maggioranza, consigliano di muoversi con celerità pari alla prudenza, per evitare che l’esecutivo – per qualsiasi motivo — arrivi azzoppato alle elezioni. Deve piuttosto restare integro se — per qualsiasi motivo — ce ne sarà bisogno dopo le elezioni.
Perciò Gentiloni non salirà al Quirinale rassegnando il mandato, più semplicemente dichiarerà «esaurito» il suo compito. Non sarà una novità nella prassi, siccome esistono due precedenti, che non a caso sono stati esaminati: il governo Amato del 2001 e il governo Berlusconi del 2006. In entrambi i casi le Camere vennero sciolte con un breve anticipo senza che i presidenti del Consiglio dell’epoca si dimettessero. Così farà anche l’attuale premier, a cui Mattarella chiederà il «disbrigo degli affari correnti», formula che sembrerebbe limitare l’azione di Gentiloni. In realtà in passato, con lo stesso status, suoi predecessori presero decisioni importanti: come la concessione delle basi italiane per l’intervento in Kosovo nel 1998.
Insomma, Gentiloni resterà «in carica». E c’è un motivo se questa è la decisione: l’orizzonte dopo le urne appare a dir poco nebuloso. Con due Camere, due diversi elettorati e tre blocchi politici, non c’è modello di voto che garantisca la formazione di una maggioranza parlamentare omogenea. Di più, c’è il rischio che sia difficile comporne una, riproponendo lo «scenario spagnolo», lo stallo che impose a Madrid il ritorno alle urne: in quella situazione Rajoy rimase «in carica» in una situazione di limbo per dieci mesi. Proprio per fronteggiare una simile eventualità è stata studiata la contromisura: una sorta di «prorogatio», come l’ha definita Antonio Polito sul Corriere. In questo contesto Gentiloni rappresenta il maniglione d’emergenza istituzionale. Il premier — alla guida di un governo che sarebbe dovuto sopravvivere poche settimane e che invece ha «festeggiato» un anno — in un colloquio con La Stampa ha raccontato la sua esperienza sull’«ottovolante», iniziata il 12 dicembre del 2016: «Sono successe molte cose difficili da immaginare. Al mio successore lascio un’Italia più stabile». Non solo resta da capire quando gliela lascerà, ma anche se la lascerà a qualcun altro.
Il Corriere della Sera