Mi riceveva sotto la doccia e inveiva contro Herrera
Allenatore rude e carismatico, entrò in rivalità con il Mago quando con il Foggia batté l’Inter. Mi divertivo a stuzzicarlo, perché era focoso. Ma sul campo rispettava tutti
Oronzo Pugliese era certamente ignorante, grossolano, provinciale e anche (non guasta) un uomo molto rude. Insomma, penserete, un po’ cafone? Assolutamente no. Era sensibile, semplice, intelligente, tenace e alla fine vincente; e sorretto da quella filosofia popolare, e dal senso dell’umorismo, che derivano dalle umili origini. Perciò ricordo subito due episodi che illuminano la sua schietta, efficace saggezza. Il primo, quando ottenne uno dei tanti suoi bei risultati in una difficile partita contro un super squadrone. Era l’allenatore del Foggia e riuscì a battere, 3-2, la formidabile Inter di Helenio Herrera, che vinceva scudetti in Italia e coppe in Europa e in tutto il mondo. Un cronista lo avvicinò e gli disse: «Questo è un risultato importante, anche per la psicologia ha battuto la grande Inter, non è vero?». Pugliese lo guardò contrariato, immusonito come spesso gli succedeva quando certi discorsi non lo convincevano, e poi replicò: «La psicologia è roba da ricchi! A noi poveri ci aiuta la grinta! » Del secondo episodio sono testimone diretto. Mi riferisco a più di 50 anni fa, metà dei mitici anni Sessanta. Al Corriere dello Sport avevo l’incarico di seguire ogni giorno gli allenamenti della Roma. E io, giovanissimo, mi divertivo a stuzzicare don Oronzo. Com’erano diversi, quei tempi! Oggi, tutti in giacca e cravatta, le conferenze stampa sono organizzate con regole ferree. Sembra di assistere a incontri politici, e guai a sgarrare. Allora, invece, don Oronzo ci riceveva sotto la doccia, nudo, mentre si insaponava, fischiettando: non era uno spettacolo attraente. E noi cronisti, quattro 0 cinque al massimo, aspettavamo che finisse e si asciugasse, ricordo meticolosamente, con un enorme asciugamani. Un giorno – il campionato era cominciato da poche domeniche, la Roma era in testa – lo provocai: «Don Oronzo, il Mago (Helenio Herrera, così tutti chiamavano il celebre allenatore dell’Inter) dice che resterete primi in classifica al massimo un paio di settimane…». Pugliese, ch’era allegro, si rabbuiò di colpo e finì di lavarsi senza una parola. Noi cronisti aspettavamo, compunti. Finalmente uscì dalla doccia e mi puntò un dito sotto il naso: «Scrivi», esplose, «scrivi che al Mago gli brucia…gli brucia…gli brucia all’ano!». Ve l’immaginate una scenetta di questo tipo, linguaggio annesso e connesso, in una conferenza stampa di oggi? Era nato a Turi, in provincia di Bari, il 4 aprile 1910 (e sempre nella sua adorata Turi si spense, a 80 anni, l’ii marzo 1990), in una famiglia di agiati contadini, proprietaria di un bel vigneto e di un mandorleto.
Era l’ultimo di sette figli: la madre ne aveva avuti tre col primo marito e altri tre, rimasta vedova, col fratello di lui, in seconde nozze. Infine Oronzo, che si rivelò un ragazzaccio: non solo a scuola non volle andare oltre la quinta elementare, ma si rifiutò di lavorare nei campi, come avrebbero voluto i genitori. Aveva una sola passione: il calcio. Esordì a 16 anni nel Turi, compensato con 15 lire a partita: come giocatore (dapprima ala, poi terzino), era assolutamente mediocre, nonostante la grinta e l’entusiasmo. A seguire, una mostruosa gavetta, di provincia in provincia, senza mai la soddisfazione di un successo, di riconoscimenti gratificanti. Passione costante e irrinunciabile vocazione: tentò di farsi ingaggiare dal Bari, ch’era in serie B, ma non vi riuscì, sembra per una «sparata» economica. E poi? Gioia del Colle, Molfetta, Montevarchi, Frosinone, Potenza, Popoli. Tra la fine della prima e l’inizio della seconda guerra mondiale, ve l’immaginate quei campi, gli spogliatoi, le trasferte, i tifosi? Una gavetta formidabile, con esperienze crude, per non dire selvagge: così si formò e si consolidò il suo carattere brusco, scaltro, privo della pur minima soggezione verso chiunque. Nel 1938, il traguardo massimo: approda al Siracusa, in serie C, e contemporaneamente – altri tempi! – debutta come allenatore nel Leonzio, la squadra di Lentini (poco distante da Siracusa). Il proprietario è un imprenditore nel settore della frutta e lo paga con cassette di agrumi… Come allenatore, la carriera fu ugualmente faticosa, ma certo più emozionante di quando in campo entrava con gli scarpini, un terzinaccio ruvido e temibile. Il debutto fu strepitoso, a guida del Messina in serie C, che ottenne la promozione, dopo uno spareggio con il Cosenza. Ma, dopo due mesi in serie B, Oronzo fu esonerato. E per lui ricominciò la gavetta impervia: Benevento, tre anni a Caltanissetta in serie D, Reggio Calabria… Pochi giocatori e allenatori hanno sudato e sofferto come lui. Ancora qualche anno di altalena tra Siena e Siracusa avanti e indietro (dovunque Oronzo, non ancora don, lasciava un buon ricordo per la sua serietà e onestà) e infine, finalmente, il botto a Foggia, appena retrocesso in serie C. Pugliese torna immediatamente in B, poi la trionfale storica – ascesa in serie A. Con quell’incredibile vittoria sull’Inter di Herrera, che pareva imbattibile. Era il 31 gennaio 1965 e l’impresa apparve sensazionale: in quella stagione infatti l’Inter vinse scudetto, Coppa campioni e Coppa intercontinentale. Esplose la rivalità con H.H., i giornali battezzarono Pugliese come il Mago di Turi, i tifosi iniziarono a dargli del «don». E così Oronzo divenne un personaggio di fama nazionale. Lo frequentai e lo conobbi bene quando, l’anno dopo, arrivò a guidare la Roma. Come allenatore, tatticamente, apparteneva all’affollata categoria dei militanti del calcio all’italiana, a quei tempi catenacciaro. Battitore libero davanti al portiere e alle spalle della difesa, marcature a uomo, contropiede. Primo, non prenderle. E se di tattiche non capiva granché, Oronzo si distingueva tuttavia dalla massa per tre preziose qualità. La prima: era un capo, un capo vero, carismatico. I giocatori lo rispettavano e lo temevano. Un sergente, che conosceva a fondo la vita e la sua complessità. Magari i giocatori alle spalle si permettevano qualche battuta da caserma per i suoi modi, il linguaggio, le abitudini. Era anche molto tirchio, impossibile cavargli una lira di tasca! («Per tutto il tempo che l’ho conosciuto, non mi ha mai offerto un caffè!», ha detto Giacomo Bulgarelli). Ma tutti rigavano dritto e in fondo quasi tutti gli volevano bene, anche per queste caratteristiche. Era severo, paterno, furbo, legato a regole di vita inconsuete, nel mondo del calcio: anche se è passato mezzo secolo, non farò il nome del giovane calciatore con cui avevo confidenza e che un giorno mi rivelò: «Alla fine dell’allenamento, non so come, don Oronzo intuì che avevo programmato una scappatella. Avevo fatto salire in auto una ragazza e lui mi seguì, senza che io me ne accorgessi! Voleva prendermi sul fatto. Arrivai fino alla pineta di Castelfusano e lì mi imboscai, sempre in auto. Dopo cinque minuti arriva lui, apre la portiera, mi ordina di salire sulla sua auto, lascia la ragazza lì, e via. Mi riporta a casa. Durante tutto il viaggio di ritorno, un’interminabile predica: non si tradisce così la moglie. E aveva ragione». (Tra parentesi Oronzo aveva sposato nel 1940, quando giocava in Sicilia, una ragazza siracusana, Adelina Scimò, a cui restò legatissimo, e presumo sempre fedele, per tutta la vita. Da lei ebbe due figli: Francesca e Matteo). La seconda qualità, fondamentale: era uno straordinario galvanizzatore. Durante la settimana, nelle ore che precedevano la partita e anche durante la gara, famose le sue corse lungo le fasce laterali del campo; gesticolando seguiva il gioco, incitava in dialetto pugliese i suoi giocatori. Riusciva a compattare la squadra, rendendola consapevole delle possibilità, sul piano agonistico. Quando si misurava con i club ricchi di campionissimi, lo slogan abituale era, per i suoi giocatori, che chiamava «picciotti»: «Loro sono undici e voi siete undici, qual è la differenza? Ventidue gambe loro e ventidue voi. Correte di più e vediamo come finisce!». La terza qualità, che lo rese apprezzato in tutto l’ambiente calcistico: era serio, onesto e leale. Nonostante la focosità, rispettava gli avversari, gli arbitri, i giornalisti. Le polemiche con Helenio Herrera erano roventi, ma aveva rispetto per il Mago, ed era ricambiato. Alla sua vita si ispirarono due popolari film, con Lino Banfi. Il figlio Matteo non si dà pace, giustamente, perché nel film si vede Banfi, nei panni di don Oronzo, che fa il gesto delle corna all’arbitro, il leggendario Concetto Lo Bello (con il quale, nella realtà, aveva un rapporto di reciproca stima). Mai Pugliese si permise gesti irriguardosi. Anzi: il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, lo nominò commendatore e lui ne fu orgogliosissimo per tutta la vita.
Diventò popolare anche per la sua incredibile superstizione, con abitudini scaramantiche divertenti. Provate a immaginare Massimiliano Allegri o Carlo Ancelotti, o chiunque altro, a emularne oggi le gesta! Don Oronzo si presentava in campo con una gallina viva, portafortuna, e se gli era consentito la legava alla panchina. Prima, aveva sparso di sale tutto il campo. Nel Foggia aveva conquistato un eccezionale nono posto. La Federazione calcio lo premiò con il Seminatore d’oro, un riconoscimento ambitissimo: due calciatori foggiani, addirittura, furono convocati in Nazionale. Alla Roma restò tre anni, non riuscì a piazzarsi sopra la metà della classifica. Era una piccola Rometta. Per ironia del destino, fu sostituito dal grande rivale, Herrera. Don Oronzo rifiutò di andare all’estero, non accettò le offerte del Panathinaikos, né la proposta di guidare la Nazionale del Canada. Non gli piacevano gli stranieri. A Joaquin Peirò disse una volta: «Siete furbi voi stranieri… Quando vi va, mi capite. Quando non vi piace ciò che dico, fate finta di non capire!». E concluse la sua lunga gloriosa carriera, guidando il Bologna, il Bari, la Fiorentina, di nuovo il Bologna, ultimo suo campionato in serie A (1972). Poi l’inesauribile passione! – accettò qualsiasi incarico gli piacesse: Lucchese, Avellino, Termoli, Crotone. Si ritirò a 70 anni, e quanto doveva essergli costato! Ebbe un ictus, visse gli ultimi anni in carrozzella. Il calcio era la sua vita. Prima di una partita con il Milan, disse al mediano che doveva marcare l’avversario più temuto: «Se alla fine sul tavolo dello spogliatoio non trovo un orecchio di Gianni Rivera, non ti faccio più giocare!». E una volta, nella Roma, in una gara con la Juventus, svenne in panchina, per un gol di Luisito Del Sol. Per fortuna sua, il gol fu annullato.
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di Cesare Lanza, LaVerità