Il professor Puglisi: “Solo propaganda, non risolve”
“Una strada elettoralistica che non porterà da nessuna parte. Anzi”. Riccardo Puglisi, professore di Economia politica all’università di Pavia, non usa mezzi termini: «Questa politica dei bonus fa male all’economia, perché crea incertezza e dopa il mercato». Insomma, servono interventi strutturali.
Professore, la decontribuzione per spingere le assunzioni è costata in tre anni 18 miliardi di euro ma la disoccupazione giovanile veleggia ancora sopra il 35%. Un taglio dei contributi limitato ai giovani fino a 29 anni può sortire un effetto più mirato?
«Neanche con l’altro bonus, che valeva per tutti i neoassunti, si è ottenuto molto. È un pannicello caldo, un intervento estemporaneo che non risolve il problema della disoccupazione giovanile. Il governo Gentiloni sta seguendo le orme del precedente utilizzando la politica dei bonus come modus operandi. Questo crea ‘fiammate’ e incertezze perché quando i bonus finiscono non si sa se vengono sostituiti e come. Dal prossimo anno vedremo quante assunzioni fatte con il Jobs Act resisteranno».
Vista la ristrettezza delle risorse disponibili per la prossima manovra, non è meglio di niente?
«Detto che gli interventi generalizzati e strutturali sono preferibili, assistiamo a un andamento erratico della politica economica che trovo molto negativo. Sono altri gli ambiti sui quali si dovrebbe intervenire: metto dei bonus e mi dimentico che c’è un pressione fiscale strutturale che strozza l’economia, come la tassazione immobiliare. Ovviamente i soldi si trovano non facendo deficit ma tagliando la spesa corrente, ma la spending review non è nelle corde di questo governo. D’altra parte, hanno messo molti soldi per finanziare l’anticipo pensionistico: non si può pensare di abbassare i contributi e, contestualmente, ampliare la spesa previdenziale».
Pensa che i soldi destinati all’Ape avrebbero dovuto essere impiegati diversamente? Magari per la pensione di garanzia ai giovani della quale si parla?
«Puntare sull’Ape è il contrario di fare gli interessi dei giovani, a meno che non si creda alla storiella della staffetta generazionale: mando in pensione i vecchi per assumere i giovani. In realtà, si è visto che sono aumentate soprattutto le assunzioni di lavoratori di mezza età. L’idea che il numero di posti di lavoro sia dato e bisogna dividersi quella torta è la negazione della crescita. La pensione di garanzia per i giovani è un’idea sensata ma, per finanziarla, va rivisto il sistema di welfare che adesso è sbilanciato a favore degli anziani. C’è una retorica pro pensionati, sempre e comunque, che fa male al Paese. Non si può far finta che il problema della disuguaglianza generazionale non ci sia».
Il governo stima che il nuovo bonus giovani porterà 300 mila nuovi posti di lavoro. Plausibile?
«Tendo a pensare che sia una stima ottimistica. In questo caso anche Confindustria sta esprimendo quella prudenza che non ha avuto ai tempi del referendum costituzionale».
Ma cosa si deve fare allora per spingere l’occupazione giovanile?
«Per problemi strutturali servono soluzioni strutturali: ridurre la pressione fiscale in modo generalizzato e spingere gli investimenti, pubblici e privati, ancora ben sotto il livello pre crisi. Il governo ha iniziato a farlo tardi e con pochi soldi, vedi Irap e super ammortamenti. Sono gli investimenti che creano real jobs , vera occupazione che si autoalimenta e non si sgonfia. Per aiutare i giovani bisogna investire sul capitale umano, cioè spesa per istruzione».
Molte aziende, infatti, lamentano uno scollamento tra domanda e offerta.
«Il capitale umano dei giovani deve diventare sinergico agli investimenti privati spostandosi verso settori tecnologicamente più avanzati. In questo spostamento noi siamo stati lenti».
A proposito di capitale umano, le politiche attive sono ancora al palo.
«È la parte migliore del Jobs Act e bisognerebbe metterci più risorse».
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