Il bilancio amaro dell’Aifi a cinque anni dalla prima legge di settore Il caso P101: i grandi successi del made in Italy sono tutti autoprodotti
C’ è un numero che fotografa meglio di tutti il ritardo italiano. Nove. Come le operazioni di finanziamento, nel 2016, di progetti innovativi provenienti da spin off universitari e centri di ricerca. Soltanto il 10%, rileva l’ultimo rapporto dell’Aifi sul venture capital, degli investimenti in capitale di rischio. A quasi cinque anni dall’entrata in vigore dal decreto Start up il nostro Paese è ancora marginale. La cinghia di trasmissione tra le idee di successo e i capitali che permettono di renderle concrete (e remunerative per gli investitori) è poco efficiente. La domanda e l’offerta s’incontrano raramente. Restano appese alla vitalità di alcuni, pochi per la verità, fondi di settore come P101, Principia, Innogest, United Ventures, 360 Capital. Eppure qualcosa si muove. Almeno da tre anni, per la volontà del Fondo italiano d’investimento partecipato, ora come primo socio, da Cassa depositi e prestiti e, tra gli altri, anche da Intesa Sanpaolo, Montepaschi e Unicredit. Il Fondo italiano ha lanciato due fondi di fondi di venture capital che hanno condotto, nel loro complesso, investimenti in nove fondi (tra cui proprio P101, 360 Capital e, tra gli altri, anche l’operatore europeo Sofinnova) per un totale di 125 milioni su un obiettivo di raccolta complessivo di circa 960 milioni.
Iniziativa lodevole, affidata ai privati, mentre, per esempio, il presidente francese Emmanuel Macron ha appena annunciato un piano di investimenti pubblici da 10 miliardi in startup e innovazione. Dieci miliardi che saranno gestiti da Bpifrance, la banca pubblica di investimento di Parigi. Un’accelerazione impressionante anche per la Francia che negli ultimi anni ha moltiplicato per dieci gli investimenti in startup (da 200 milioni a 2 miliardi) tramite Caisse des dépôts, la Cassa depositi e prestiti d’Oltralpe. In Italia, nel 2016, abbiamo appena toccato 163 milioni di euro di investimenti. Peccato, potremmo dire. Per l’occasione che sta perdendo il Paese. Il fondo P101, utilizzando il database di BeBeez, ha appena redatto un rapporto illuminante sugli ultimi 15 anni di venture capital in Italia. Una galleria di casi di successo. Tra i primi, uno su tutti: Yoox, ora diventato un colosso del commercio elettronico nel mondo del lusso, dopo la fusione con Net-a-Porter. Ma anche alcune best practice come lastminute.com, Venere.com e altri che tentano d’intercettare nuove domande di consumo, come Mutuionline, Cortilia, Moneyfarm, BorsadelCredito.it.
Andrea Di Camillo, managing partner di P101, crede che il tasso d’innovazione del Paese si giochi proprio sulla capacità di veicolare il risparmio su queste forme di investimento alternativo: «La strada che porta al venture capital è sì adatta a fondi pensioni e istituzionali, ma può essere un buon modo per ottenere rendimenti interessanti anche per private banker e family office». Senza contare, e sarebbe una rivoluzione, che la nuova direttiva europea Aifmd, in tema di investimenti alternativi, apre anche al retail. È chiaro che si tratta di una strada lastricata di buone intenzioni, ma anche di rischi. Ma Di Camillo inquadra il tema in quelle che una volta avremmo chiamato politiche industriali: «Il valore della trasformazione digitale può essere colto proprio intercettando queste società artefici dell’innovazione oggetto di investimento dei venture capital». Serve, però, una capacità di valutazione che deve essere demandata ad operatori di professione: «Noi vediamo 2 mila società all’anno e scegliamo le migliori – spiega Di Camillo -. L’investitore informale, che agisce in modo destrutturato, non ha questi termini di confronto». Per trovare unicorni come Yoox. Non provarci nemmeno significa regalare il futuro agli americani (vedi Uber e Airbnb) o ai cinesi (il produttore di telefoni Xiaomi).
Fabio Savelli, Corriere della Sera (L’Economia)