Quei 304 milioni di buonuscita dei dieci top manager italiani

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È la somma delle maggiori indennità riconosciute dal 2008 ai dirigenti delle grandi aziende, dall’ex Fiat a Luxottica. Da Romiti ad Andrea Guerra passando per Profumo e Colaninno, chi ha avuto quanto. Il confronto con gli Usa e le nuove leggi, non sempre rispettate

Le cosiddette «buonuscite» hanno sempre fatto discutere, ma sono finite nel mirino dell’opinione pubblica soprattutto con la crisi del 2008. Il termine comprende sia il compenso corrisposto a chi lascia prima della scadenza del mandato per sua volontà o per volere dell’azienda — e quindi è una sorta di incentivo all’uscita — sia l’indennità di anzianità corrisposta al momento della cessazione del rapporto di lavoro, quindi il Tfr (quella che un tempo si chiamava «liquidazione») e più lungo è il periodo e più alta sarà la cifra.
Le buonuscite sono cresciute negli anni come i compensi, ma quando ha cominciato a soffiare il vento dell’austerity hanno cominciato a calare e non sono corrisposte se il rapporto finisce perché il top manager ha raggiunto risultati oggettivamente inadeguati. Anche se più basse, sono meritate o eccessive? «Le indennità, in Italia, rimangono troppo alte», commenta Arnaldo Camuffo, capo del Dipartimento di Management dell’Università Bocconi. E non si tratta di un’opinione personale. «Il Codice di autodisciplina delle società quotate prevede che l’indennità non superi un determinato importo o un determinato numero di anni di remunerazione. Ma la direttiva europea prevedeva un tetto di due annualità». Il limite di due anni di stipendio si è perso per strada. Ma per far ritrovare la retta via ai Comitati per la Remunerazione, che decidono le policy aziendali in merito, ci ha pensato il Comitato per la Corporate Governance di Borsa Italiana, che nella relazione annuale 2016 dà tre consigli. Il primo è di ridurre l’ammontare facendo riferimento a parametri certi. Il secondo è di prevedere la sospensione o di chiederne la restituzione a fronte di performance aziendali, anche ex post, negative. Il terzo è una maggiore trasparenza.
La top ten italiana
Al primo posto nella classifica delle maggiori liquidazioni percepite dal 2008 (elaborata da L’Economia c’è con Arnaldo Camuffo, direttore del dipartimento di Management e Tecnologia dell’Università Bocconi) c’è con 105,3 milioni di euro Cesare Romiti, con 24 anni di lavoro (la cifra comprende il patto di non concorrenza). Secondo è Alessandro Profumo (oggi designato alla guida di Leonardo) che all’uscita da Unicredit ha avuto 40,4 milioni (ne ha donati due in beneficienza) per 12 anni di attività. Terzo posto per Matteo Arpe (oggi al vertice di Sator e Banca Profilo) che lasciò Capitalia con 37,4 milioni di liquidazione per sette anni di attività.
Seguono Luca Cordero di Montezemolo (uscito da Ferrari) con 27 milioni per 13 anni di lavoro (anche qui, compreso il patto di non concorrenza); Paolo Cantarella (Fiat) con 20 milioni per 25 anni; Roberto Colaninno (Olivetti) con 17 milioni per 15 anni; Cesare Geronzi (Generali) con 16,7 milioni per un solo anno di lavoro; Giovanni Bazoli (Banca Intesa) è all’ottavo posto con 15 milioni per 25 anni (cinque milioni donati in beneficienza); nono è Carlo Puri Negri (Pirelli Re) con 14 milioni per 20 anni (compreso il patto di non concorrenza); decimo è Andrea Guerra (Luxottica) con 11,4 milioni per dieci anni di attività.
Il confronto con l’America
Negli Stati uniti la top five delle liquidazioni dei manager dal 2007 vede in testa Rex Tillerson (Exxon Mobil) che percepì 180 milioni di dollari, al secondo posto Gary Cohn (Goldman Sachs) con 123 milioni, al terzo Jamie Damon (Jp Morgan) con 28 milioni, quindi Marissa Mayer (Yahoo!) con 23 milioni e Elaine Chao (Wells Fargo) con 5 milioni di dollari.

di Fausta Chiesa, Corriere economia