di Cesare Lanza
Scommettiamo che il caso Totti, nella Roma, non è affatto chiuso? Di più, riproporrà un problema antico quanto il calcio: il difficile rapporto tra gli allenatori e i campioni. Fulvio Bernardini era tra i migliori della sua epoca, ma Vittorio Pozzo non lo convocava per la Nazionale (due volte, ’34 e ’38, campione del mondo), perché era troppo bravo, colto, educato, intelligente. Metteva in soggezione i compagni di squadra. Nel 1970 a Rivera fu consentito di giocare solo gli ultimi sette minuti della finale del campionato del mondo col Brasile, quando perdevamo 4-1. Gianni era un artista solitario, scomodo, incapace di arruffianarsi e di accettare compromessi. Idem Roberto Baggio, anche lui un «diverso»: gli allenatori, salvo Carletto Mazzone, lo subivano, ma non lo amavano. La lista sarebbe lunghissima, ma eccoci a Francesco Totti.
Dopo le aspre polemiche dell’anno scorso, l’allenatore Luciano Spalletti lo ha mandato in campo negli ultimi sette minuti del derby malamente perduto con la Lazio. Che senso ha? Se hai fiducia, gli consentì di giocare almeno mezz’ora. Se fiducia non c’è, lo lasci in panchina. Sette minuti, come fu per Rivera, vogliono dire: ti coinvolgo nella sconfitta. Oppure: sono disperato, non so più che cosa fare. Ma giocatori come Totti non sono stupidi. E neanche il pubblico. Il malessere resta evidente. Meglio scegliere una strada dritta e dura, come fece Pozzo e come avrebbe voluto fare Spalletti, obbligato poi a ridicole contraddizioni. Chi conosce Totti, sa che non gradisce gli approcci melliflui. Ma tra le sue qualità c’è anche il controllo dei nervi. Come è già successo, si farà sentire con parole sommesse, ma esplicite più di un’invettiva.
Cesare Lanza, La Verità