Cercavamo insieme memorabilia di Garibaldi sulle bancarelle, dove lo spennavano. È tempo di dedicare una via allo statista, abbattuto dai falsi amici e da Tangentopoli
Cesare Lanza, La Verità
Difficile dimenticare Bettino Craxi e il ruolo che ha avuto nella storia italiana! In questi giorni si è riacceso un argomento non inedito: è giusto, per ricordare l’ex leader socialista, dedicargli una strada o una piazza? Dirò dunque subito la mia opinione: certamente sì. E non solo: ho fiducia che questo straordinario personaggio italiano possa avere un giorno la riabilitazione che merita. E sono felice di iniziare da lui una breve serie di ritratti di quei protagonisti della cosiddetta Prima repubblica, che ho avuto la fortuna di conoscere da vicino. Ritratti? È eccessivo definirli così! Per Craxi ci vorrebbe un libro e già molti ne sono stati scritti, ne cito due, rispettosi e minuziosamente documentati: quello di Antonio Ghirelli, che fu il suo portavoce, L’effetto Craxi, e l’imponente biografia di Massimo Pini, che fu uno dei suoi amici e manager più fidati: Craxi: una vita, un’era politica. Tanti libri sono stati scritti anche per Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, Giacomo Mancini, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Marco Pannella e pochi altri, con cui ho avuto incontri e rapporti significativi. Nello spazio possibile qui, mi limiterò a rievocare quegli incontri personali e sensazioni e giudizi, che «a pelle», come si dice, mi ero formato.
IL PRIMO INCONTRO
Oggi può sembrare incredibile, ma fu Craxi a esprimere la curiosità di conoscermi. E una comune amica organizzò un pranzetto per noi due. Era il 1976, subito dopo la batosta elettorale che il Psi incassò alle elezioni, per colpa della sciagurata linea del segretario Francesco De Martino (millimetricamente subalterna al Pci: per cui gli elettori in gran massa scelsero di votare direttamente comunista, visto che i socialisti si dichiaravano totalmente allineati). Ero il direttore del Corriere d’informazione, Craxi era vicesegretario, dissidente, di De Martino. Il risultato elettorale indicava i democristiani al 38%, il Pci al 34, i socialisti al minimo storico, ovvero al 9%. Non conoscevo Bettino, mi trovai di fronte un gigante che mi parve molto timido e, con un monologo, raccontò ciò che prevedeva per i successivi anni: i socialisti come partito di interdizione e di alternativa, poi al governo finalmente un laico (e fu Giovanni Spadolini), al Quirinale un socialista (e fu Pertini) e infine un socialista al governo (e fu Craxi, nel 1983, ma Bettino in quel pranzo, forse per pudore, non lo disse, ma il concetto era chiaro).
ERRORE DI VALUTAZIONE
Lo salutai sconcertato e scettico. Fu il mio più clamoroso errore di valutazione, simile a un altro che commisi qualche anno dopo, verso Silvio Berlusconi (un giorno ne parlerò e riderete ancora di me). Quanto a Craxi, mi parve chiara la sua candidatura alla successione a De Martino, per la segreteria – cosa che puntualmente si affermò in luglio, regista Giacomo Mancini. Per il resto, me lo dico da solo: fui veramente ottuso, superficiale; un sempliciotto. Bettino mi apparve come un uomo smodatamente ambizioso, un confuso visionario. Inizialmente, col giornale, mi mostrai scettico. E fu Massimo Pini a consigliarmi di essere cauto.
Quando, al Midas di Roma, Bettino fu eletto segretario, e molti (giornalisti e colleghi di partito) lo consideravano una specie di re travicello, Pini mi disse: «Non sottovalutarlo, passeranno anni prima che riescano a schiodarlo dalla segreteria!» Un eccellente profeta: ci volle Tangentopoli, nei primi anni Novanta, cioè 15 anni dopo, a costringerlo alla resa. Con Bettino nacque presto una curiosa amicizia: poco assidua, ma affettuosa, sincera. Subito, gli avevo confessato come fossi imbarazzato per non aver valutato la sua intelligenza. E le sue previsioni, da Spadolini a Pertini e finalmente, nel 1983, alla sua designazione a premier, si realizzarono puntualmente.
SUI NAVIGLI
Vivevo a Milano: come Craxi avevo la passione di frequentare il mercatino sui Navigli. I mercanti lo aspettavano per rifilargli qualsiasi patacca, conoscendo i suoi gusti: qualsiasi cosa degna di inserirsi nella sua collezione in memoria di Giuseppe Garibaldi. Ma Bettino aveva l’occhio lungo: «Questi ladroni», mi diceva «non hanno rispetto, pensano che io sia un povero fesso». Una volta gli regalai un capoccione in pietra dell’eroe dei due mondi. Lo acquistai per poche lire una settimana dopo che il mercante aveva provato a estorcergli una cifra inverosimile. Lo avevo conosciuto timido, col tempo invece mi sorprendeva, e mi piaceva, l’imprevedibile carisma. Una volta lo seguii a Washington, per un suo incontro con Ronald Reagan: ho ancora in cuore il ricordo, la soddisfazione di averlo visto autorevole, disinvolto, come se fosse lui il presidente degli Stati Uniti, e non il prestigioso attore asceso alla Casa Bianca, al suo fianco davanti a noi giornalisti. Molto simpatico, Bettino, quando era di buon umore. Quella volta, riuscii a eludere le guardie e a ficcarmi con lui in ascensore. Mi disse: «Che ci fai qui? Non certo per me! Avrai visto qualche lodoletta da insidiare…». Era convinto che (come a lui!) il gentil sesso mi piacesse molto. Da quel giorno, «lodoletta» entrò nel mio gergo. Un’altra volta si fermò a parlare con i giornalisti… «Vi racconto una barzelletta..», disse. Tutti finsero un’attenzione estrema… Dopo qualche secondo, ingannati da una sua tipica pausa, tre o quattro cortigiani scoppiarono a ridere rumorosamente. «E che diavolo!», li fulminò Bettino «almeno fatemi finire!».
ORGOGLIO NAZIONALE
A proposito di Reagan, fui orgoglioso (come la maggior parte degli italiani), quando, in una drammatica notte, Craxi si oppose ai marine americani, che volevano arrestare, a Sigonella, i terroristi arabi, che avevano sequestrato l’Achille Lauro. «Siamo in territorio italiano» disse al telefono, irremovibile, a Reagan. «Agire è un nostro diritto e dovere». Reagan cedette e si evitò un conflitto tra i soldati americani e i nostri carabinieri. Secondo molti, fu quel gesto l’inizio della sua fine. Non credo che l’ipotesi di una vendetta americana (verosimile) sia provabile. Una volta gli chiesi se avesse avuto qualche esitazione.
«Nessun dubbio, quando sei dalla parte della ragione», fu la risposta asciutta. Ma sono convinto che nessun altro politico italiano avrebbe avuto la stessa forza nelle palle. Non solo, penso che nessun altro leader sarebbe stato capace di portare i socialisti, per tre lustri, al centro della politica italiana, con il 13% dei voti (risultato del 1992). Craxi cominciò col dire saggiamente, appena eletto segretario, «Primum vivere, deinde philosophare». Poi il suo potere divenne immenso e commise almeno un paio di errori, tradizionali nella vita dei super potenti. Il primo, quello di sottovalutare i cambiamenti nella società, l’avvento della Lega e la qualità di importanti forze a lui ostili (i poteri forti). Il secondo: aver trascurato, ignorato e minimizzato le dissolutezze del partito. E ne aggiungerei un terzo: non aver considerato (0 sottovalutato) la pericolosità di amici che non lo erano affatto. Lo capivo quando andavo a trovarlo a Palazzo Chigi, e gli dicevo che il partito non aiutava minimamente il tentativo di salvare Il Lavoro, lo storico giornale genovese, socialista (diretto per 22 anni da Sandro Pertini), di cui avevo assunto non solo la direzione, ma anche, sciaguratamente, la responsabilità editoriale (risultato: io mi rovinai economicamente, la testata finì nelle mani del gruppo De Benedetti, il più ostile ai socialisti). «Io devo pensare a governare questo Paese, e non è facile», così mi rispondeva Craxi, «al partito pensano Claudio (Martelli) e gli altri».
DATA FATALE
Alla vigilia delle fatali elezioni del 1992 andai a trovarlo nel suo ufficio in piazza Duomo, a Milano. Era tarda sera, firmava cartoline, libri e manifesti. Chiacchieravamo e ogni tanto – questo era il mio intento – tentavo di convincerlo a venire a una festa da ballo, dove lo aspettavano suo cognato, Paolo Pillitteri e altri amici. Alla fine abbassò gli occhiali sulla punta del naso e mi fissò con quello sguardo ironico che lo distingueva: «Senti un po’», mi chiese, «pensi che De Gaulle sarebbe andato in un nightelub, in attesa di elezioni tanto importanti?». Mi è piaciuto, Bettino, per piccole e grandi cose, e ancor oggi, dopo tanto tempo, mi emoziono a rievocarle. Quando riuscì a sostituire col garofano rosso la falce e martello nel logo del partito. Quando coraggiosamente si oppose alla sterile e assurda linea della fermezza e avrebbe voluto aprire una trattativa con le Brigate rosse, per salvare la vita di Aldo Moro. Quando in Parlamento pronunciò il celebre discorso «Alzi la mano chi sostiene di non essere al corrente delle donazioni ai partiti…». Quando in tribunale, interrogato da Antonio Di Pietro, rispose e ragionò senza esitazioni, paure e smarrimenti. Quando ammise che al congresso di Verona del 1984 i fischi a Enrico Berlinguer erano stati un grave errore. Quando partecipò a sgretolare il muro di Berlino con martello e scalpello. Quando, almeno con me, scherzava dei nomignoli (Bokassa, il Cinghialone), che gli avevano affibbiato…
LACRIME
Bettino è morto il 19 gennaio 2000 ad Hammamet. Non andai ai suoi funerali, non volevo imbattermi in pseudo amici ipocriti, falsamente dolenti. Sono andato altre volte, una volta ho rischiato di morire nella sua casa di Hammamet, avevo infranto una grande vetrata: mi salvai evitando con le mani e i polsi che le schegge mi cadessero in testa.
Fu Anna, la vedova di Bettino, a soccorrermi e a portarmi nella clinica dove Craxi era stato spesso ricoverato. Ho pianto sulla sua tomba in terra, in quel povero, dignitoso cimitero, commosso dalla caducità della vita di un uomo ch’era stato tra gli italiani più potenti. Esule in Tunisia, cosi mi sembra giusto definirlo, anche se i suoi nemici, inesausti, vogliono considerarlo latitante. Ma la storia farà giustizia.
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di Cesare Lanza, La Verità