Sistemi anti-bufala, brand affidabili, bollini di qualità per ridurre il danno a lettori ed editori. Facebook e Google all’opera, ma sta agli utenti distinguere
di Andrea Secchi
Arrivano le ultime mosse di Google e Facebook contro le fake news, le notizie false: per quanto riguarda il primo, in testa ai risultati delle ricerche non si trovano più richiami ad articoli di diverse fonti che parlano dell’argomento (la sezione «Nelle Notizie»), ma uno spazio «Prima Pagina» con i link a servizi di testate note e affidabili, le stesse che compaiono su Google News. Facebook, dal canto suo, ha brevettato un sistema che consentirà in automatico di individuare le bufale, imparando dalle precedenti segnalazioni degli utenti, e quindi di rimuoverle dopo un processo di revisione interna. Tutto questo si aggiunge ad altre iniziative che i due giganti hanno preso, come l’esclusione dei siti e dei contenuti falsi dai propri circuiti pubblicitari. Altre iniziative ancora seguiranno.
Le notizie false, nonostante il dibattito si sia acceso all’indomani delle elezioni americane con la vittoria inattesa di Trump, in realtà sono un problema antico. Semplicemente i meccanismi di partecipazione e condivisione degli utenti sui social lo hanno fatto emergere ancora di più oggi. Si è discusso su quanto le bufale abbiano influenzato le elezioni, si è data notizia di attività organizzate di disinformazione online contro Hillary Clinton (provenienti dalla Russia). In realtà, non si può stabilire quanto tutto ciò abbia favorito Trump, di sicuro le fake news sono circolate e hanno avuto grande seguito.
I danni sono per i lettori, che vengono distratti dalle notizie reali; per il mondo dell’informazione che soffre di una riduzione di credibilità; per gli editori, che si trovano a competere nella pubblicità con contenuti falsi e però molto attraenti che generano traffico.
Ma cosa sono e perché nascono le notizie false? Una prima categoria, che non pone problemi, è quella delle notizie satiriche, palesemente false e difficilmente scambiabili come vere. Poi c’è la categoria della notizie ingannevoli inventate ad arte per screditare qualcuno e favorire qualcun altro (le notizie sulla salute della Clinton per esempio) o i falsi realizzati semplicemente per fare soldi, come accade per la maggior parte dei siti che diffondono bufale. Infine ci sono gli errori involontari: materiali o notizie originali usati in maniera sbagliata, fraintesi.
La seconda domanda è perché la gente condivide le fake news. Un articolo di First Draft (l’iniziativa per il sostegno dell’informazione verificata online lanciata fra gli altri da Google News Lab e a cui aderiscono anche editori italiani) spiega che per molti diffondere notizie è un modo per sentirsi partecipi dell’età digitale, uno sforzo narcisistico per raccattare «mi piace» e followers.
Ovviamente escluso chi può avere interessi politici o economici dalla loro diffusione, le notizie si diffondono non per fare informazione, ma perché si trova soddisfazione nel responso immediato della cerchia di amici e oltre. Ovvio che più la notizia è sensazionalistica meglio è. C’è anche chi condivide qualcosa a fin di bene, convinto che i siti underground, le notizie non battute dai media tradizionali contengano verità che si vogliono nascondere. Per questo nel calderone ci finisce tutto e, anzi, le bufale imperano.
Su cosa si debba fare per contrastare le notizie false si interrogano in molti. Come detto i due grandi player del web sono in azione. Facebook, in realtà si è svegliato un po’ tardi e dopo che Mark Zuckerberg ha cercato di minimizzare il problema all’indomani delle elezioni. In questo caso si è aperto un dibattito anche sulla natura di Facebook, se si debba considerare un editore e quindi se debba avere responsabilità su ciò che appare agli utenti. Fatto sta che secondo uno studio di Ipsos Public Affairs per BuzzFeed, il 75% degli americani ha creduto nelle notizie false in cui si è imbattuto e le persone che hanno citato Facebook come la maggiore fonte di informazione erano quelle che più credevano vere notizie false rispetto a chi ha dichiarato di usare altre fonti.
In attesa che i contenuti verificati trovino modo di emergere rispetto alle fake news (Google vuole attribuire un’etichetta di qualità in Google News per chi fa fact ckecking, per esempio), c’è chi spiega che sono gli utenti a dover aprire gli occhi. Intanto i siti realizzati con lo scopo di diffondere notizie false in genere si distinguono, ha scritto in un suo lavoro una docente di comunicazione della Merrimack College del Massachusetts, Melissa Zimbards. Hanno un cattivo design, confuso e affollato, foto manipolate, la stessa storia ripetuta più volte nella home page, una barra laterale con storie su sesso, diete, chirurgia plastica e così via, testi con errori di grammatica e di stile.
Purtroppo questo ormai spesso non aiuta. Oggi basta poco per disegnare un sito molto simile a testate blasonate. Inoltre le notizie diffuse sui social appaiono tutte uguali e strumenti come Instant Articles, così come le Accelerated mobile pages di Google, restituiscono articoli puliti che è difficile valutare sulla base dei criteri precedenti.
Alla fine gli utenti dovranno fidarsi di chi realmente fa fact checking anche solo per rilanciare notizie che sembrano provenire da fonti attendibili. E gli editori spingere ancora di più sulla credibilità del proprio brand.
Andrea Secchi, Italia Oggi