I disegni del capo della compagnia telefonica più prestigiosa del mondo, passata attraverso infiniti scorpori e nuove acquisizioni. Sembrano grandiose le sinergie con Time Warner: per rilevarla ha messo sul tavolo 85 miliardi
“Se non ti piace il cambiamento, ti piacerà ancora meno l’irrilevanza”. La frase (ormai cult) del generale Eric Shinseki – capo dell’esercito americano con George W.Bush e ministro (per i veterani) con Barack Obama – campeggia in bella vista sul muro dell’ufficio di Randall Lynn Stephenson, da nove anni amministratore delegato di At&t e uomo del momento in America per via dell’acquisto/ fusione da parte della più famosa società di telecomunicazioni Usa con il gigante di media e tv Time Warner. “Sono alla guida di una delle “big company” americane, una società che ha 140 anni di vita. Quando nel mio lavoro penso e immagino una crescita non posso fare a meno di considerare che il mercato Usa attuale non ha nulla a che vedere con quello di dieci anni fa”, dice Stephenson. “Fino a sei anni fa non esisteva un “app store”, con quel nome si descriveva un posto dove mangiarsi un appetizer, uno snack. E da qui a cinque anni il mercato non avrà nulla a che vedere con quello che abbiamo oggi sotto gli occhi”. Era il 5 giugno scorso quando il Ceo di AT&T disse queste frasi, in un’occasione che (apparentemente) non aveva nulla a che fare con il suo lavoro. Il 26 maggio era diventato presidente dei Boy Scouts of America, una delle più grandi organizzazioni giovanili degli Stati Uniti (quasi due milioni e mezzo di iscritti) e furono in molti a domandarsi perché uno dei manager più potenti (ma anche tra i più riservati) degli Usa si fosse imbarcato in quell’avventura. Lo spiegò lui, pacatamente, ricordando il grande passo che il suo illustre predecessore alla guida dei Boy Scouts (Robert Gates, capo del Pentagono dal 2006 al 2011 prima nella Casa Bianca di George W. Bush e poi in quella di Barack Obama) aveva compiuto: mettere definitivamente al bando l’assurda discriminazione contro i gay. “Non credo che l’associazione degli scout debba cambiare la sua missione o i suoi valori fondativi, ma il nostro “prodotto”, la nostra “consegna” e la nostra “leadership” devono adattarsi ai cambiamenti demografici e culturali del nostro paese. Vogliamo veramente far crescere il nostro movimento? Allora i cambiamenti che ci sono stati negli ultimi due o tre anni devono essere la base da cui partire per i cambiamenti futuri”. Sarà forse stato per via del suo nome, del prestigio che gli derivava dall’essere il capo indiscusso di At&t, del suo impegno nel difendere ‘Black Lives Matter’ (il movimento antirazzista nato per rispondere alle violenze della polizia contro i neri): sta di fatto che quel discorso rivolto ai giovani esploratori è diventato uno dei suoi più celebri (e celebrati), anche per i media finanziari. Anche perché, per spiegare meglio un concetto (“Oggi è un nuovo giorno per lo scoutismo, se negli anni passati siamo stati costretti alla difensiva adesso è ora di cambiare”) decise di usare una metafora del proprio lavoro: “At&t vendeva telefoni con tre colori differenti, oggi abbiano dodici versioni differenti di iPhone, un flip-phone da 25 dollari, decide di smartphone di varie marche, un sacco di tablet”. Il mondo (e il mercato) stanno cambiando velocemente e la filosofia di Randall Stephenson è che occorre adeguarsi a questa nuova velocità, un tempo sconosciuta agli uomini d’affari e alle grandi imprese. Per far crescere e promuovere At&t – il prodotto, la consegna, la leadership quando è diventato amministratore delegato ha voluto che fosse ridisegnata nei dettagli l’intera mappa degli Stati Uniti, le differenze tra stato e stato, tra città e città, tra quartiere e quartiere. Per avere sotto controllo giorno per giorno i gusti, le differenze, le aspettative di clienti vecchi e nuovi. Come secondo passo (forse ancora più importante) ha messo sotto la sua personale lente di ingrandimento il mondo dei millennials , quella generazione di giovani – nati dai primi anni Ottanta fino all’inizio del nuovo secolo – che sono (e saranno sempre di più) determinanti per le scelte e le strategie di mercato. Studiando i millennials si è reso conto che se la At&t fosse rimasta solamente una società di telecomunicazioni (per quanto innovativa), in un futuro ormai prossimo rischiava di essere travolta dal nuovo mondo dell’economia digitale. Fu così che parlando ai boy scout spiegò anche le ultime strategie dell’American Telephone and Telegraph Company (questo il nome originario della prima corporation): “Perché per crescere dobbiamo cambiare il board e il modo in cui opera, perché il nostro approccio a ogni settore chiave del mercato deve essere unico, perché grandi organizzazioni crescono se cambiano, pur senza compromettere il proprio core business e i propri valori di fondo. E voglio dirvi una cosa, questa organizzazione ha prodotto grandi leader, se dovessimo eliminare dalla At&t tutti gli ex boy scout ci sarebbe un terrible buco nella nostra leadership”. Già l’anno scorso aveva compiuti il primo passo, con quella che molti definirono una rischiosa scommessa. Aveva infatti acquistato (per 49 miliardi di dollari) DirectTV, il principale operatore di tv via satellite (Time Warner arriva via cavo). Con la decisione di comprare Time Warner (un affare da 85,4 miliardi di dol-lari), sta adesso per compiere il capolavoro della sua carriera. Far diventare quella che era un tempo (ormai lontano) una compagnia telefonica regionale in uno dei più grandi gruppi di telecomunicazioni e media di sempre, mettendo insieme i milioni di clienti del business wireless con i milioni di clienti della tv a pagamento (Time Warner ha nel suo portfolio canali come Hbo e Cnn, , ha i film della Warner Bros. e quelli dei Dc Comics). Se riuscirà a superare le scuri dei severi regolatori federali, sarà uno dei maggiori casi di fusione della storia recente. E per uno che è nato, cresciuto e si è affermato nel mondo delle telecomunicazioni portare la At&t nel mondo dei video, del cinema e della televisione sarà la consacrazione definitiva. Non male per un ragazzo nato in uno degli stati delle Grandi Praterie, in quelle terre un tempo territori degli indiani d’America considerate (non sempre a torto) ai margini dell’economia Usa. É in un Oklahoma dalle forti tradizioni che risalgono agli anni dei pionieri (e politicamente repubblicana) che il giovane Randall, figlio di un piccolo proprietario di bestiame e fresco di laurea – un diploma in contabilità fa il suo ingresso nella Southwestern Bell Telephone, una delle sei ‘sorelle Bell’da cui è nata la nuova At&t (che non ha più quasi niente a che fare con la storia compagnia unica costretta al breakup negli anni 80 ma deriva da una serie di fusioni incrociate fra varie “sorelle”) . Una carriera tutta interna all’azienda, prima nel dipartimento information technology, poi in quello finanziario. Una rapida ascesa che lo porterà negli anni Novanta in Messico, dove inizia a lavorare a fianco di Carlos Slim (il miliardario a capo di un impero multinazionale che per un paio anni è stato considerato l’uomo più ricco del mondo) fino al ritorno negli Stati Uniti, dopo quattro anni decisivi per la sua crescita (e una completa padronanza della lingua spagno-la), per diventare (2001) il Chief Financial Officer e successivamente (2004) Chief Operations Officer e luogotenente prediletto del suo predecessore Edward Whitacre. Sono quelli gli anni dei primi grandi accordi che lo portarono nel 2007 sulla poltrona di amministratore delegato dell’azienda dove era entrato ventenne. È del 2011 la prima grande prova per mettere in opera la sua filosofia di crescita, con l’acquisto (per 39 miliardi) dei grandi rivali della T-Mobile. Operazione che i regulators dell’antitrust riescono però a bloccare. Ha dovuto aspettare quasi quattro anni prima dell’affondo con DirectTV, adesso dopo altri 18 mesi il grande annuncio su Time Warner. Chissà se stavolta passerà l’esame dell’antitrust.
Repubblica