Le Olimpiadi di Rio si sono chiuse con un titolo secco: “La Gran Bretagna ha battuto la Cina”. Un dato reso inequivocabile dai numeri che hanno definitivamente completato il medagliere brasiliano: 27 ori per gli atleti che sventolano il simbolo dell’Union Jack, 26 per quelli avvolti dalla bandiera rossa con la stella gialla. Britannici alla fine secondi solo agli Usa. Un boom che fa seguito agli straordinari risultati ottenuti quattro anni prima a Londra, quando la spiegazione del successo venne chiusa in modo semplicistico: “Merito di una manifestazione organizzata in casa”. Ma c’è uno slogan ormai virale nello sport della Gran Bretagna che spiega bene l’exploit: “Qui si vince perché per noi è solo un gioco”. Dieci parole per ricordare il più semplice e vincente piano di sovvenzionamento dello sport immaginato nell’Europa moderna. Risale infatti al 1994 il programma elaborato dall’allora primo ministro John Major che decise di mettere mano alla Lotteria Nazionale per trasformarla in motore culturale e socialmente utile all’intera nazione. La Camelot è l’operatore che in modo monopolistico oggi amministra il gioco e ridistribuisce il 25% dell’intera raccolta secondo un programma di cosiddette “Good causes” (solo nell’ultimo anno fiscale, la raccolta complessiva si è attestata a 7,2 miliardi di sterline).
Il panorama del Regno Unito è diametralmente opposto allo scenario italiano: mentre da noi si è fatto violento lo scontro tra amministrazione pubblica e industria del gaming, in Inghilterra, favorita anche da un approccio culturale al gioco molto più aperto, gli incassi provenienti da questo settore vengono considerati decisivi per la crescita e la formazione dei più giovani. In 26 anni infatti, grazie alla ripartizione strutturata intorno al business della Camelot, sono state versate 4,4 miliardi di sterline nelle tasche dei soli atleti. Il percorso studiato dall’Inghilterra conservatrice di metà anni Novanta e confermato con forza successivamente da Tony Blair, non è ovviamente rivolto alla sola eccellenza atletica. Nel 2015 poco meno di un miliardo di sterline è servito a finanziare ricerche in campo medico- scientifico e ha contribuito in quota parte alla costruzione o ristrutturazione di ospedali. Un fondo destinato all’istruzione ha attinto a questa somma per stanziare borse di studio divise a seconda dei livelli di istruzione; un programma a parte è infine stato finanziato in campo di protezione dell’ambiente.
«Dovremmo seguire la strada segnata dal governo inglese – spiega Fabio Felici, direttore dell’agenzia Agimeg specializzata nell’industria del gaming – nessuno comprende questo settore meglio di loro e soprattutto nessuno come loro è riuscito a far conoscere nel dettaglio la distribuzione dei proventi. Un esempio che dovrebbe far riflettere anche l’Italia». Sempre la Gran Bretagna lo scorso anno ha distribuito circa 460 milioni tra Sport, arte e iniziative di sostegno del patrimonio culturale presente sul territorio. Il progetto britannico si è fatto conoscere soprattutto alla fine del mese scorso, quando i dirigenti inglesi sono tornati carichi di medaglie dai podi di Rio.
Un campione a medaglia, sponsor esclusi, guadagna poco meno di 30mila sterline l’anno. A scorrere la sequenza di risultati olimpici ottenuti dalla Gran Bretagna dopo l’entrata a regime del programma Major si comprende immediatamente la bontà del collegamento tra industria del gioco e investimenti sulla formazione, in questo caso sportiva. Le Olimpiadi di Sydney 2000 sono considerate la prima manifestazione direttamente collegata al programma, e in quell’anno la squadra britannica conquistò 11 medaglie d’oro, un risultato destinato a richiamare l’attenzione degli esperti di statistica visto che il team non superava quota 10 ori dai tempi di Anversa 1920. Risultato simile nel 2004 ad Atene con 9 ori, fino al boom di Pechino (19 ori), Londra (29) e Rio (27 ma secondo posto assoluto nel medagliere).
Dati che oltre a lucidare l’orgoglio del paese al momento dell’inno, hanno sottolineato in modo incontrovertibile l’efficacia dell’investimento. Un meccanismo ben conosciuto anche dall’Italia visto che per quarant’anni il Coni e le sue federazioni hanno brillato grazie al 30% di introiti provenienti dalla schedina del Totocalcio. Oggi però, l’idea di uno sviluppo culturale e sportivo riconducibile al gaming lascia freddo il governo, preoccupato soprattutto di critiche e attacchi che richiamano alle costanti polemiche su ludopatia e gioco compulsivo. In Scozia, dal 2006 (anno che segna la sua apertura) a oggi, il solo Museo di Glasgow ha ricevuto dalla Camelot e dai suoi biglietti della lotteria, un sostegno finanziario diretto pari a 30 milioni di euro. La Gran Bretagna ha trovato il suo gioco. L’Italia può provare a prendere esempio.
Repubblica