L’imprenditore bergamasco, ex vice presidente di Confindustria, quinta generazione di una famiglia che ha fatto la storia industriale italiana: «A giudicare da quello che ho visto in queste settimane, mi pare che l’approccio numerico sia il meno adatto»
«Da ingegnere le dico che far gestire il mondo agli ingegneri non va bene». Carlo Pesenti, alla domanda se il dopo Brexit e la gestione delle vicende bancarie da parte dell’Europa debba renderci ottimisti o pessimisti, non risponde. Forse perché un imprenditore deve guardare al futuro con fiducia. Ma una certa perplessità traspare. Non sull’Italia e sulla sua capacità di reazione dimostrata in questi anni. Anni che Pesenti ha seguito anche da vicepresidente della Confindustria. La riforma che ha riorganizzato il sistema delle imprese e le nomine al vertice porta il suo nome. Cinquantatré anni, quinta generazione di una famiglia che ha fatto la storia industriale e non solo del Paese, è l’artefice dell’internazionalizzazione del gruppo e oggi della sua trasformazione. La riservatezza della famiglia è proverbiale. E quella di Carlo lo è forse ancora di più. Ma molte delle partite economiche che hanno segnato le cronache finanziarie di questo Paese sono passate per Bergamo, la città di residenza della famiglia e dove tutto è nato nel 1864. Facendo un salto indietro nel tempo, si ricordano gli scontri, come quello che la famiglia ebbe con Michele Sindona per difendere le proprie aziende. Da quella Villa di Scanzo dove si sono iniziati a macinare i primi prodotti in un mulino, si snodano vicende che hanno contribuito a fare l’Italia, dall’Autostrada del Sole al grattacielo Pirelli. Ma anche il primo gruppo bancario privato in Italia, o una compagnia assicurativa, la Ras, oggi confluita nel gruppo Allianz. Una storia che si intreccia profondamente con l’Europa, prima della cessione di Italcementi ai tedeschi di Heidelberg, l’85% dei ricavi erano realizzati all’estero. E oggi, oltre alle partecipazioni in Mediobanca, Unicredit, Banca Leonardo, dentro Italmobiliare si trovano società di servizi come Bravo Solution con sede a Chicago, multinazionali tascabili come Sirap group, l’energia rinnovabile di Italgen o i fondi del primo private equity italiano, Clessidra.
Mi pare perplesso sul come l’Europa stia affrontando il tema delle banche. Cosa non la convince?
«A giudicare da quello che ho visto in queste settimane, mi pare che l’approccio numerico, basato su indici matematici, sia il meno adatto».
Dov’è l’errore?
«Semplice, le banche in questo momento devono affrontare una crisi pesante. Alcune rischiano di non farcela. Non hanno abbastanza capitale per reagire alla situazione. Ebbene cosa viene chiesto loro? Più capitale, proprio quando al contrario dovrebbero essere aiutate a superare questo momento».
Ma se è così semplice, perché non si risolve il problema?
«Perché l’approccio è quello dei tecnocrati. Per di più di diversi paesi. Un tecnico tedesco che cosa può sapere della situazione profonda italiana, e viceversa un italiano della situazione francese? È evidente che può solo affidarsi ai numeri, agli schemi, alle regole. E quindi potenzialmente aggravare il problema».
E allora, come si risolve?
«È evidente che ci deve essere un approccio politico. La politica è composizione di diversi interessi ma con l’obiettivo alla fine di avere un risultato migliore per tutti. Chi regola, i tecnici, gli ingegneri di cui parlavo prima, è invece concentrato sull’evitare problemi futuri. Sono focalizzati sui problemi non sulle soluzioni. Devono vigilare, certamente, ma le soluzioni devono tenere conto del contesto, della situazione generale».
Siamo condannati quindi, perché la visione politica appare latitante, lo si è visto con la gestione della crisi greca.
«La situazione mi ricorda il fallimento dei piani quinquennali dell’Unione sovietica».
L’Unione sovietica? E che c’entra?
«Ma sì, si facevano piani quinquennali per produrre milioni di stivali, poi intanto il mondo cambiava, magari non pioveva più e ci si ritrovava con milioni di stivali inutili. Guardi cosa è successo con la Brexit».
Cosa è accaduto con la Brexit?
«Nessuno aveva un piano B. L’Europa è andata avanti normando, regolando. Ma chi gestisce i problemi? L’euro è stato salvato da Mario Draghi che si è messo lì e se lo è imposto come obiettivo. Ma l’immigrazione? Chi l’affronta? Chi la gestisce? C’è una polizia di frontiera europea a Lampedusa? No. I cittadini hanno bisogno di queste risposte. Non di un generico più Europa. E infatti ripiegano nei propri confini nazionali. Ma se gestissimo il nostro gruppo pensando solo all’Italia saremmo matti».
Per questo avete venduto ai tedeschi?
«Abbiamo venduto il cemento. Spesso veniamo identificati solo con quel settore. Ma mio nonno Carlo con Italmobiliare ha fatto tutto tranne cemento; dalle banche alle assicurazioni Ras».
E adesso?
«Adesso, anche dopo il progetto di conversione delle risparmio che vale circa 500 milioni, abbiamo una liquidità di circa 700 milioni che in questi mesi decideremo come investire. Alle scelte sull’Italia penserà Clessidra recentemente entrata nel gruppo. Ma per Italmobiliare l’orizzonte sarà sicuramente di medio lungo periodo, europeo e anche americano».
Il futuro sarà ancora nell’industria?
«Parlare di industria oggi è strano. Servizi … industria… i confini sono estremamente mobili».
Farete come i Wallenberg, con partecipazione come Abb, l’industria del bianco…
«Loro sono molto più grandi ovviamente. Noi, di sicuro non entreremo nei business regolamentati come le reti fisiche e non. Punteremo su 3 o 4 investimenti in imprese che abbiano prospettive di crescita e sulle quali rischiare con giudizio. Senza le imprese non c’è crescita e sviluppo, a volte si fa fatica a capirlo».
A cosa si riferisce? Lei è uno degli esponenti maggiori della Confindustria…
«Dico semplicemente che, nella storia recente del nostro paese, grazie a Squinzi ieri e a quello che oggi e domani farà Boccia, Confindustria ha contribuito e contribuirà al percorso di riforme di cui abbiamo assoluto bisogno».
Ma per l’elezione del presidente di Confindustria vi siete divisi.
«Sì, ma il percorso di elezione è stato chiaro, trasparente e sui programmi. Abbiamo introdotto, con la riforma, un virus pericoloso che si chiama democrazia. Guardi, mi meravigliano piccoli e grandi imprenditori che sono rimasti spiazzati dell’elezione di Boccia. La democrazia è questo: ci si divide prima, ma quando il presidente viene eletto è il presidente di tutti e va sostenuto. Soprattutto in momenti difficili per le imprese e per il paese».
Mi sta dicendo che quindi restate divisi?
«No, affatto, all’ultimo consiglio generale si è votato tutto all’unanimità. Referendum compreso».
Un via libera al governo?
«La politica la lascio fare ai politici. Da imprenditore dico solo: attenzione a interrompere il percorso delle riforme. L’Europa sta vivendo un momento molto difficile. Cito Papa Francesco che all’Europa ha detto “sei nonna”. Quando in Gran Bretagna gli anziani votano tagliando le gambe ai giovani e per di più senza avere un piano B si capisce quanto la prudenza debba animare la politica nell’infiammare gli animi e alimentare i populismi. Nel sottolineare le manchevolezze senza mai elaborare vie d’uscita. Nelle aziende sa come si chiama questa cosa? Si chiama governance».
Governance?
«Sì, senza governance le aziende saltano, si disintegrano. Ci deve essere un sistema di pesi e contrappesi. E quando si decide di ricorrere al voto, non lo si deve fare perché non sapendo risolvere un problema lo si scarica sui cittadini. Altrimenti gli effetti possono essere deflagranti».
di Daniele Manca, Corriere della Sera