In origine erano Stiglitz e Piketty, ma ora diventa globale la rivolta contro i compensi da decine di milioni per i capi azienda: il fondo sovrano annuncia che non investe più in società che pagano troppo i dirigenti
La Cheniere Energy di Houston, che ha pagato il suo Ceo, Charif Souki, 141,9 milioni di dollari nel 2015, potrà scordarsi che nel suo capitale investa un giorno il Fondo sovrano norvegese. Altrettanto dovrà fare Alphabet, il nuovo nome di Google, che l’anno scorso ha versato cento milioni tondi al nuovo Ceo, l’indiano Sundai Pichai. Ma anche la Gamco Investors di New York, che ha corrisposto 85 milioni al capo azienda Mario Gabelli, figlio di emigrati da Medesano in provincia di Parma. Lo stesso vale per la gloriosa Oracle, il cui boss Larry Ellison si è messo in tasca 85 milioni, per Cbs (65,6 milioni a Leslie Moonves, prima donna in classifica), per Transdigm (64,2 milioni di dollari a Nick Howley) e sicuramente anche per Fiat Chrysler Automobiles che ha premiato Sergio Marchionne con la bella somma di 56 milioni (di euro), messa insieme combinando i compensi da executive di Fca, Cnh (i mezzi per agricoltura controllati da Exor), della stessa Exor, della Ferrari e anche di Philip Morris.
La settimana scorsa il Fondo norvegese, maggior bacino di denaro al mondo con 870 miliardi di dollari di patrimonio, in possesso di abbastanza risorse da poter comprare fino all’1,3% di tutte le società quotate su ogni Borsa del pianeta, ha spiazzato tutti aggiungendo una postilla ai suoi già rigorosi standard di investimento (niente società dell’alcol, del tabacco, che fanno lavorare i bambini o sfruttano le genti dei Paesi in via di sviluppo e via dicendo): non rileverà quote di aziende i cui manager sono pagati
in modo abnorme. Per il fondo scandinavo è una decisa svolta, in quanto finora al contrario dichiarava apertamente di non volersi interessare alla politica di retribuzioni delle aziende in cui investiva: invece ora si unisce alla battaglia che da anni portano avanti economisti come Joseph Stiglitz e Thomas Piketty, oltre che gruppi d’azione e comitati civici di tutto il mondo.
È la prima volta che a pronunciarsi è qualcuno che ha in mano i cordoni della borsa, e che borsa, ma non è la prima volta che le superpaghe dei manager s’incrociano in qualche modo con i bilanci aziendali. L’incidente più clamoroso è capitato nel 2012 a Jamie Dimon, celebratissimo Ceo della blasonata JP Morgan. La banca si accorse di essere stata raggirata da Burno Iksil, uno dei suoi trader detto London Whale dalla sede in cui operava, che aveva aperto posizioni cervellotiche sui derivati fino a lasciarle un buco di 6,2 miliardi di dollari, solo per intascare i suoi bonus a sei zeri. Gli effetti furono micidiali: la banca cominciò nel primo quarter del 2012 ad accumulare perdite: erano 90 anni che non chiudeva un trimestre in rosso, dalla Grande Depressione, e contabilizzò un deficit di 769 milioni di dollari, e poi via via altre perdite fino a ritrovare faticosamente la stabilità solo due anni dopo. Risultato: Dimon si vide dimezzato da 20 a 10 milioni lo stipendio 2012 (nel 2011 era stato il banchiere più pagato del mondo). Poi anche lui ha piano piano recuperato le posizioni e quest’anno è tornato a guadagnare 20 milioni, fra le proteste popolari per il “perdono”.
Anche nell’Eurozona le proteste non mancano. Se ne fa portavoce perfino la commissione di Bruxelles, che ha inserito per la prima volta nella Capital requirements directive, la cosiddetta Crd 4 del novembre scorso, oltre a tutte le misure prudenziali per banche e aziende, espressamente la necessità di controllare la paga dei capi affinché non ci siano contraccolpi sul bilancio. In tutti i Paesi membri cresce la consapevolezza del problema, anche in Italia: il collegio sindacale di Telecom ha espresso il suo più vivace disappunto per il superstipendio da 55 milioni (se raggiungerà gli obiettivi) promesso al nuovo Ceo, Flavio Cattaneo. Anche sul trattamento riservato al suo predecessore Marco Patuano (2,4 milioni di stipendio 2015 ma 7 milioni di liquidazione a inizio 2016) non mancano le perplessità del collegio.
Ma di episodi curiosi non ne mancano: l’ex ad di Luxottica Adil Mehboob Khan è stato retribuito con 13,5 milioni nel 2015 pur essendo stato nello stesso anno prima assunto e poi messo alla porta da Del Vecchio senza aver avuto il tempo di raggiungere alcun obiettivo: per “ringraziarlo” di aver lasciato la Procter & Gamble gli era già stata versata una “buonentrata” di 9 milioni di euro. Non meno paradossale, ma per lui felicissimo, il destino di Giovanni Battista Ferrario, l’ad di Italcementi: per il solo fatto di essere stato al posto giusto mentre l’azienda veniva assorbita dalla Helidelberg ha incassato più di 10 milioni. Sembrava una buonuscita, invece alla fine i tedeschi l’hanno confermato.
Altrettanto originali, e molto peculiari di un Paese a forte capitalismo familiare, le varie formule con cui gli azionisti di maggioranza si “premiano” con stipendi autoassegnatisi pur condividendo con manager professionisti gli incarichi operativi in azienda, da Carlo Pesenti (10,4 milioni) ad Alberto Bombassei (5,2). Non nuovo è invece il malcostume dei capi azienda il cui compenso è del tutto slegato dai risultati aziendali. Anzi. Gianni Zonin, buttato fuori a furor di popolo in novembre dalla Popolare di Vicenza, che aveva condannato a un’agonia non ancora conclusa, ha comunque incassato uno “stipendio” di 1 milione, in linea con quello dell’anno prima. Mentre i suoi correntisti assisstevano al volatilizzarsi di 5 miliardi.
Non è un problema solo italiano. In Francia il ministro dell’Economia, Emmanuel Macron, si è messo di punta contro Carlos Ghosn, cercando di bloccare la paga di 7,2 milioni che la Renault vorrebbe attribuirgli in aggiunta agli otto milioni che già prende come Ceo della Nissan: l’obiezione è che la Reanult è in parte pubblica perché lo Stato ne possiede il 19,7%. Ancora più aspra la battaglia d’Inghilterra: Bob Dudley, Ceo della Bp, ha ricevuto 19,6 milioni di dollari di remunerazione per il 2015 (il 20% in più dei 16,4 del 2014) malgrado nello stesso tempo la compagnia sia precipitata da un profitto di 8,2 miliardi a una perdita di 5,2 miliardi. Ma almeno lì Ann Dowling, presidente del “pay committee”, vistasi messa in minoranza, si è dimessa.
Repubblica