Lezioni di poesia e di politica
di Stefania Miccolis
“Che faccio adesso? Faccio quello che avrei amato fare sin dall’inizio, solo attività letteraria, e giro per il mondo quando esce una nuova traduzione dei miei libri; è questo che avrei voluto fare fin dalla prima giovinezza, ma non ho potuto, perché…il poeta che fa solo il poeta muore giovane, non ci si mantiene con la poesia. Anche se è il massimo dell’ideale morire giovane per poesia…”. “Comunque la poesia mi ha dato le gioie più grandi, più intense perfino dell’amore”. Ma se nel resto del mondo Corrado Calabrò è stato diffusamente riconosciuto per la sua attività di poeta, in Italia ha ricoperto sin dagli anni ‘60 ruoli tra i più prestigiosi nel mondo istituzionale, giuridico.
Una persona poliedrica, una vita in mezzo a regole rigide, leggi e sentenze, dove tutto è pragmatico, razionale, ogni norma deve essere rispettata, e non si può sbagliare, sennò si è severamente criticati, al di là di possibili problemi politici e giudiziari. I ruoli svolti: capo di gabinetto di tanti ministeri, dopo essere entrato per concorso, nel maggio del 1968, nella magistratura del Consiglio di Stato, (primo classificato, studiando di notte in “un periodo di applicazione estrema”), presidente onorario del consiglio di stato, presidente del tribunale amministrativo regionale del Lazio e per ultimo Presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Dunque un vero ibridismo il suo, un’ambiguità: “E’ difficile avere talento in due campi diversi” dice soddisfatto più di quanto voglia mostrare, perché riuscire felicemente in un duplice campo, quello della propria passione e quello della propria applicazione, è davvero raro.
Se gli chiedi come conciliava questi due modi di essere, due personalità distinte, quando era impegnato fino al collo, risponde con due figure allegoriche: “Non sono conciliabili, sono come due gemelli siamesi uniti dalla schiena che tirano in direzione opposta: quando uno tira, l’altro lo deve seguire ma lo segue riluttante. Sono due emisferi cerebrali con funzionamento alternato. La mia attività di magistrato per più di cinquanta anni è stata tutta impegnata in una dimostrazione logica serrata, difficilmente ricusabile, perché bisogna essere convincenti per arrivare a una conclusione imposta che venga anche accettata. La poesia invece è alogica, nasce dal subliminale, il poeta scrive perché non può tacere quello che lui stesso non sapeva di avere dentro. Ma guai a chi bleffa, a chi finge di esser stato abbagliato da un flash di bellezza che non ha visto o che magari ha anche intravisto, ma che non sa trasmettere agli altri, per cui ricorre a fumisterie pour épaterle bourgeois. In questo modo la poesia viene svilita a turlupinatura, come i vestiti nuovi dell’Imperatore della favola di Andersen”.
Calabrò si sofferma a parlare di poesia a lungo, è come se volesse entrare nei lettori soprattutto attraverso questo, e non per il lavoro per cui invece in Italia ha avuto tanti riconoscimenti e soddisfazioni. O forse è talmente preso da questa sua ormai unica attività che non può fare a meno di esplicitare tutte le sue emozioni e sensazioni. Una serie di metafore si susseguono per spiegare il suo concetto di poeta e poesia: è piacevole ascoltarlo. “Nella casa della poesia la stanza in cui si dimora di più è la camera d’attesa”. Calabrò la poesia in incubazione non la forza mai, addirittura la rinvia un po’, la tiene in stand-by, finché la pulsione diventa irresistibile, l’ispirazione acquista spessore, e si trova quella “combinazione di senso e non senso, che è la poesia”.
“Non è poeta chi non riesce a comunicare agli altri: la poesia però non comunica in maniera diretta, comunica per evocazione, assonanza, analogia”. Si può pensare che Calabrò abbia usato la poesia come valvola di sfogo, come una sorta di palliativo psicologico, per lui invece è una cosa comprimaria, forse primaria e quasi si offende se si pensa questo, perché –afferma – lui nasce poeta prima di ogni altra cosa: “Le mie prime poesie le scrissi tra i quindici e i diciotto anni e furono pubblicate da Guanda. Poi un concorso appresso all’altro fino a quello durissimo per il Consiglio di Stato”. Per 56 anni ha dedicato dodici ore al giorno al lavoro, “ma per la poesia l’intensità è tale da compensare la minore estensione, e qualche volta mi rapisce proprio”. Tuttavia negli anni sessanta per qualche tempo la vena non ci fu poi ecco tornare quella pulsione irresistibile: “Intitolai la mia seconda raccolta Agavi in fiore, una pianta che fiorisce ogni venti anni e muore col suo gigantesco fiore. E invece da allora non mi sono più fermato”. Ricorda quando, nel settembre 2009, scrisse senza interrompersi, in tre giorni, ben 602 versi che diedero vita a Roaming, il suo poemetto di estensione maggiore. “Era nato di getto, come nascono le rotaie dalla colata di fusione dell’altoforno, serpeggiano i binari incandescenti, lunghi anche 200 metri, poi si irrigidiscono e prendono forma definitiva e perfetta. Tutti i miei poemetti sono nati pressoché all’impronta”.
Così anche L’esorcismo dell’Arcilussurgiu; lo scrisse in Sardegna al mare, in una giornata, uscendo dall’acqua in cui si era già immerso e battendo i primi versi sulla coscia: “In quei momenti è come una sorta di possessione, ma se non si è allenati, esercitati, la mano tradisce. Senza forte pulsione non esiste scrittura creativa, ma occorre avere accurata preparazione, altrimenti la convenzionalità ti prende, la retorica sbava come l’inchiostro annacquato, e tutto questo falsa la poesia. Bisogna che arrivi il momento di grazia, che le parole si combinino in una formula alchemica. È un po’ come per il bravo calciatore: deve essere continuamente in perfetta forma fisica, un perfetto palleggiatore; malgrado ciò in partita non è detto che faccia qualcosa di incisivo. Ma se non è preparato e in perfetta forma, quando gli arriva la palla, e il corpo deve tendersi come un arco di violino nella giocata, in quel momento fallirà certamente. Così il poeta deve esercitarsi, ma guai a scambiare gli esercizi di versificazione preparatori per poesia”. Ancora una metafora: “Il rubinetto a volte fiotta goccia a goccia, a volte l’acqua scorre fluentemente…io non so mai e non programmo mai quando scriverò una poesia. Ci vuole ispirazione, senza di essa non c’è poesia, ma quando arriva, fugge in un momento: bisogna coglierla in quell’attimo, come per un tiro in porta. Capita che in un momento felice, che ha del magico, un’impressione, un pensiero, una percezione penetrino in profondità e poi risalgano alla superficie portando in emersione qualcosa che era depositato nel subliminale e che prende forma allora per la prima volta. La poesia deve comunicare per risonanza, non per esposizione, però deve comunicare immediatamente. Il messaggio che arriva è mutante, ma è importante che l’altra persona, entrando in sintonia, senta quella stessa vibrazione che il poeta ha percepito. Non si può fare come in un saggio o in un romanzo”. “Significante e significato sono un tutt’uno in poesia, un felice accordo musicale mediante la combinazione di più note”.
Ma ecco che finalmente Calabrò risponde a domande su altro, e le metafore spariscono, come se la vena poetica fosse scomparsa o tenuta nascosta, e il tono diventa più serio, e si vede tutta la doppia personalità del personaggio nel suo linguaggio, nell’atteggiamento. “Quale ruolo ha più amato nella sua vita da non poeta?” – “La cosa che mi ha gratificato di più sono state alcune sentenze che ho scritto, che hanno cambiato il corso del diritto amministrativo. Sono l’inventore del giudizio di ottemperanza: scrissi una prima sentenza nel ’72, poi ancora nel ’73,’74, introducendo tutto uno sviluppo del processo amministrativo, che non era scritto nella legge e non era scritto da nessuna parte. Tanto che all’inizio ci furono delle rivolte in dottrina, qualcuno accusò la sentenza di essere un brutale atto di normazione, non di giurisdizione. Ma quell’innovazione corrispondeva a un bisogno profondo, aveva una sua giustificazione sistematica, tanto che innumerevoli sentenze, da allora tutte conformi, l’hanno seguita, e ultimamente nel 2005 è stata recepita in legge nel codice nuovo del diritto amministrativo”.
Calabrò ha trovato interessante anche l’attività di Capo di Gabinetto in 18 ministeri, particolarmente al Tesoro, al Bilancio e all’Industria (oggi dello sviluppo economico), “perché in un momento di crisi rilanciammo l’industria italiana grazie ad alcune leggi nell’’80 e ‘82”. E poi ricorda il suo periodo alla presidenza del Consiglio dal ‘63 al ‘68, con Aldo Moro: “un posto unico dove si ha una visone panoramica del paese e della funzione di governo e dove si possono dare indirizzi di lungo respiro”. Capo gabinetto di 26 ministri, è rimasto sentimentalmente attaccato ad Aldo Moro e a Giovanni Marcora. Parla di Moro come di una persona deliziosa sul piano umano e molto affettuosa, che non modificava mai i testi che lui scriveva, “perché a Moro piaceva come scrivevo, sembravano scritti di sua mano. Sì, avevo questa abilità imitativa”.
Nella sua carriera c’è naturalmente anche qualcosa che si rammarica di non aver visto realizzare: “Per me è stato un grosso errore rinunciare al nucleare. Ho presieduto la commissione che ha indagato dopo l’incidente di Chernobyl, dovuto a un incredibile errore umano. Rinunciando al nucleare abbiamo rinunciato a un costo accettabile dell’energia elettrica e tutte le industrie energivore sono emigrate dall’Italia: alluminio, rame e altre. Avevamo costruito la prima centrale nucleare in Europa e l’abbiamo abbandonata, la Francia ne ha costruite 46 vicino al confine: un incidente nucleare non osserva i confini nazionali, siamo esposti a tutti i rischi del nucleare senza averne i vantaggi. Da noi l’energia elettrica costa due volte in più che alla produzione in Francia e non abbiamo risorse di materie prime, petrolio o gas. L’Italia non esamina scientificamente le cose, è troppo emotiva: si va al primo impatto che i mass media favoriscono a svantaggio di una valutazione approfondita delle situazioni, si va ai giudizi a pelle che nelle questioni complesse non vanno bene. Se Marcora non fosse morto forse non avremmo perduto il nucleare”.
Per il terrorismo ritiene sia fondamentale il lavoro di intelligence: “Ho vissuto l’esperienza della guerra, ho visto intorno a me i corpi squarciati durante i bombardamenti. Bisogna mantenere i nervi saldi come gli inglesi durante i bombardamenti di Londra. Accettare i controlli, certo, ma non servono le misure ostentate, massicce, occorre un lavoro penetrante d’intelligence. A Bruxelles la polizia vallona e quella fiamminga stentano a comunicare, nella stessa città! La seconda guerra mondiale è stata vinta, oltre che dall’industria pesante americana, dal lavoro di intelligence del Regno Unito. Furono gli scienziati inglesi a decrittare Enigma e salvare così il traffico marittimo nell’Atlantico. Bisogna penetrare in quell’ambiente. Al tempo delle Brigate rosse l’Italia ha saputo farlo”. È preoccupato per la situazione in Libia perché l’Isis si riverserà laddove è stata condotta una guerra dissennata, del cui effetto destabilizzante gli Stati Uniti si accorgono solo adesso, anni dopo aver appoggiato lo sfascio inconsulto del Paese. “La Libia è molto più vicina a noi della Siria. C’è però un barlume di speranza. I brigatisti vennero sconfitti in Italia anche perché l’intera società, compresi i partiti e i sindacati, li ripudiarono e li emarginarono. Vorrei sperare che in Libia accada qualcosa di simile”. Per la violazione della privacy nella lotta al terrorismo est modus in rebus, c’è una via di mezzo tra l’invasività massiccia che si ebbe negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, e che come tutte le misure elefantiache non funziona, e la discrezione pudica del Belgio”.
Riguardo al nostro governo dice che “Renzi ha un piglio alla Fanfani o anche oltre”. “Le cose che enuncia vanno nel senso giusto, i modi sono a volte troppo perentori, arroganti, anche se capisco che bisognava reagire a decenni di mediazioni politiche estenuanti e inconcludenti. Renzi ha una vis comunicativa formidabile, ma l’attuazione dei suoi annunci lascia a desiderare e mette anche il piede in fallo già nella tecnica redazionale. Questa è importante perché, se le leggi sono scritte alla rinfusa, quando si va ad applicarle nascono problemi e si perde tutto il tempo guadagnato con una veloce emanazione. È la stesura delle leggi che tante volte porta a errori, incertezze, contestazioni legali esasperanti. Ma in questa fase il governo Renzi è insostituibile, non c’è alternativa: non perché sia il meglio, ma perché nel breve periodo non è sostituibile”.
Per i giovani non riesce a dare consigli: “Spero che l’Italia si riprenda. Certo, se ci fosse un uomo del fare come Marcora… sono decenni che il governo, anziché indicare linee di lungo respiro, segue i sondaggi. Si segue la tendenza dell’audience di giornata, si guarda alle misure che fanno più effetto sulla massa e si ondeggia secondo gli umori instabili e mutevoli del pubblico. La differenza tra uno statista e un uomo politico è che il politico guarda alle prossime elezioni, lo statista guarda al futuro delle giovani generazioni. Voglio sperare che in Italia venga fuori prima o poi la visione di uno statista. Ma in Italia e altrove – guardi gli Stati Uniti – l’influenza dominante dei mass media ha enfatizzato il fenomeno: riscuote maggiori consensi chi la spara più grossa, chi si dimostra più avventato e irresponsabile; gli elettori si fanno suggestionare dalla chiacchiera a ruota libera. Einstein non parlava ancora a quattro anni e Mosè era balbuziente, ma hanno cambiato il mondo. La democrazia è malata, secondo la mia esperienza, perché le qualità che servono per farsi eleggere sono opposte a quelle che servono per governare”.
Alla fine, come se sentisse ancora il bisogno di uscire dal lavoro che lo ha tenuto occupato per oltre cinquant’anni, ritorna in Calabrò un senso di nostalgia poetico. Innamorato della sua terra, anche se ormai ci va raramente, dice: “Mi manca il mare, ogni mattina quando mi alzo e apro le imposte in un primo momento avverto una sensazione di privazione, un attimo dopo realizzo: mi manca il mare che vedevo dalle finestre della mia casa a Reggio Calabria”.
Stefania Miccolis