Qualunque cosa abbia fatto nella sua vita, Elisabetta Belloni è sempre stata la prima. Prima studentessa ad essere ammessa nel 1972 al Massimiliano Massimo, il liceo dei Gesuiti fino ad allora off-limits alle ragazze. Prima donna a guidare uffici strategici del ministero degli Esteri: l’Unità di crisi, la Cooperazione allo Sviluppo, il Personale. E anche questa volta, nominata dal Consiglio dei ministri segretario generale della Farnesina in sostituzione di Michele Valensise, dimessosi nelle scorse settimane, Belloni conferma la sua mistica: mai prima di lei una donna è stata al vertice della carriera diplomatica italiana. Cinquantasette anni, romana, laureata in Scienze politiche alla Luiss, il nuovo segretario generale è nei ranghi della nostra diplomazia dal 1985. Chi la conosce bene racconta di una personalità forte, determinata, a volte anche dura, anche se mai avara di un sorriso. Non poteva essere diversamente, in un ministero dai tratti fortemente maschili, dove Belloni non si è vista regalare nessuna «quota rosa» riuscendo a far breccia nonostante un contesto non propriamente favorevole: «Ho dovuto dimostrare che potevo farcela e ho dovuto impegnarmi forse un po’ più dei miei colleghi», ha dichiarato in una delle sue rare interviste. Una scuola non di carriera, ma di preparazione e di stile, Belloni l’ha avuta dall’aver vissuto al fianco di uno dei migliori ambasciatori italiani del Dopoguerra: ha sposato infatti Giorgio Giacomelli, che è stato nostro rappresentante in Somalia e Siria, prima di guidare l’Unwra, l’agenzia per i rifugiati palestinesi, e di servire negli anni Novanta come zar anti-droga dell’Onu, da vicesegretario generale di Perez de Cuellar. Ma la prova inconfutabile del suo talento e della sua bravura è che tutti gli esponenti politici italiani con i quali ha lavorato nel corso degli anni, da D’Alema a Fini, da Frattini a Bonino, da Mogherini fino a Paolo Gentiloni, che l’ha anche scelta come capo di gabinetto, l’hanno portata in palmo di mano. Elegante nei suoi tailleur di Chanel, filo di perle e scarpe col tacco, Belloni è quella che viene definita una «smooth operator», capace di muoversi con accortezza e abilità, ma anche con pugno di ferro, nella gestione di macchine burocratiche complesse. Di certo, le prove del fuoco non le sono mancate. Da poco arrivata all’Unità di crisi, nel dicembre 2004, le toccò affrontare l’emergenza dello Tsunami. Tre anni dopo fu ancora in prima linea nella difficile trattativa per la liberazione del collega di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, rapito in Afghanistan. La sua tenuta alla Cooperazione, in un periodo molto tempestoso segnato da pesanti tagli al bilancio, le ha procurato non pochi nemici per la fermezza con cui ha tenuto testa alle lobby e imposto criteri di trasparenza e oggettività nelle procedure per la presentazione e l’approvazione dei progetti delle Ong. Anche il suo esordio al vertice della Farnesina avviene in una tormenta: quella innescata dal caso Regeni. «Le donne — ama dire — hanno quasi per natura una propensione a decidere senza tentennamenti e ad assumersi responsabilità anche quando ciò comporta dei rischi personali». Prima della nomina a segretario generale, Elisabetta Belloni ebbe il suo «momento (quasi) fatale» nell’estate del 2014. Era lei infatti la candidata in pectore di Matteo Renzi a succedere a Federica Mogherini, nominata Alto Rappresentante per la politica estera della Ue, alla guida del ministero degli Esteri. Diverse ragioni, le preoccupazioni della carriera dopo la non felice esperienza di Giulio Terzi e non ultima la natura troppo politica dell’esecutivo Renzi, portarono invece alla scelta di Paolo Gentiloni. Da segretario generale, a Belloni toccherà gestire un difficile passaggio generazionale e consolidare i cambiamenti già avviati dal suo predecessore, trasformando definitivamente la rete diplomatica in un vero e proprio volano per il sistema Paese. A lei guardano soprattutto le giovani feluche, messe in allarme dalla recente vicenda della nomina di Carlo Calenda a Rappresentante permanente preso la Ue, che ha rotto la lunga tradizione di una carica occupata esclusivamente da diplomatici ed è stata percepita come un’umiliazione per la carriera.
Paolo Valentino, Corriere della Sera