La scalata a Mediaset è solo l’ultimo blitz del finanziere bretone contro un ex-sodale. In 25 anni di onorata carriera costellati di importanti plusvalenze ha sfilato una banca all’amico di papà, scaricato due padri putativi e assediato l’azienda di un compagno di scuola.
Parola d’ordine: amici mai. Gli affari sono affari. E Vincent Bolloré – il serial-raider della finanza francese – non ha deluso i suoi fan nemmeno questa volta. L’assalto a Mediaset del patron di Vivendi, per chi ha letto il suo curriculum vitae, è un classico della casa. Titolo: “Dr. Jekyll e Mr. Hide”. Oppure – a voler essere cattivi – “Il mascalzone”, l’etichetta che gli ha rifilato l’ex-padre putativo Antoine Bernheim. Il copione è lo stesso che cavalca con successo dagli anni ’90: un vecchio sodale – in questo caso Silvio Berlusconi – naviga in acque agitate. Quando le cose stanno precipitando arriva lui, pronto a dare una mano: mette i soldi – un miliardo per la pay-tv Premium – toglie le castagne dal fuoco, lieto fine e sipario.
Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio. In Italia come a Parigi, il segreto del metodo-Bolloré è il sequel: il salvatore bretone – incassati gli applausi riconoscenti dei salvati – ha un’allarmante tendenza a trasformarsi nel loro scalatore. Vecchi rapporti d’affari, strette di mano o parentele non contano. Se intravede un’opportunità, attacca senza badare alle forme. Ha soffiato l’impero di famiglia a una delle più blasonate dinastie transalpine, sfilato una banca all’amico di papà, teso agguati in Borsa ai compagni di scuola. Ha scaricato senza troppe cerimonie – quando serviva – anche i consiglieri più fidati. Facendosi tanti nemici, va da sè, ma mettendo assieme quel tesoretto che gli consente oggi di tenere sotto scacco la Fininvest.
Il primo a scottarsi le dita sottovalutando Bolloré è nel 1991 Tristan Vieljeux, patron della gloriosa compagnia marittima Delmas. Irritato perché il giovane bretone – assistito da Bernheim, deus ex machina di Lazard – l’ha sfidato entrando nei trasporti via mare. Vieljeux, parente di un primo ministro di De Gaulle, lo considera un atto di lesa maestà e prova a soffocare in culla la società del rivale. Ma ha fatto i conti senza l’oste. “Bollo”, come lo chiamano tutti, è un osso duro e convince il Conte Eduard de Ribes, amico di papà, a rastrellare il 5% di Delmas con la sua Banque Rivaud. Poi contatta uno a uno i 90 membri della famiglia Vieljeux, ne convince molti a cedergli le azioni e conquista il controllo del gruppo. Tristan è sconfitto: “Sono più spiaciuto del tradimento dei parenti che della scalata di Bolloré”, confessa uscendo di scena.
Il primo blitz è riuscito. Il secondo scatta subito dopo. Il nobiluomo de Ribes, colpito dalla spregiudicatezza del bretone con il sorriso da Sfinge, ne fa il suo figlio spirituale. E quando Rivaud finisce sotto scalata ostile, chiama in soccorso il pupillo. Lui accorre, respinge l’assalto di Stern e Dumenil Léblé e il padrino – riconoscente – gli affida la gestione della banca. Un errore che gli sarà fatale. Una volta messo il naso nei bilanci, Bolloré scopre che i conti non tornano. E nel 1996, quando un dipendente accusa di evasione fiscale la società, parte all’attacco dell’ex mentore. La politica è in allarme. Rivaud è la cassaforte della destra gaullista, di cui conosce i segreti più inconfessabili. Nessuno può permettersi un crac. L’estabilishment parigino non si fida del Conte e chiede aiuto al “parvenu” bretone. Lui coglie la palla al balzo, si allea con i soci belgi e accoltella alle spalle de Ribes, mettendo le mani sulla ricchissima cassa della banca.
La sua fama di raider con un certo pelo sullo stomaco ormai è consolidata. Il 9 dicembre ’96 squilla il telefono in casa Bouygues a Parigi. Martin, numero uno dell’omonimo colosso delle costruzioni francese, risponde e quando sente all’altro capo della cornetta la voce del suo ex-compagno di scuola Bolloré gli si gela il sangue nelle vene. La chiamata, ça va sans dire, non è di piacere: “Ho rastrellato l’8,7% della tua società – gli comunica secco Vincent -. La mia non è un’operazione ostile”. Martin non gli crede, rompe i rapporti – non andrà nemmeno al matrimonio della nipote con Yannick, il figlio del bretone – e salva l’impero di famiglia solo grazie all’aiuto di Francois Pinault.
Bollorè si consola con una bella plusvalenza. Poi si dedica alla campagna d’Italia. Prima con Mediobanca, poi con Generali e Telecom e ora Mediaset. Assistito passo passo da Bernheim. Quando però il patron di Lazard non gli serve più lo scarica, togliendoli la poltrona di presidente di Trieste, l’autista e l’uso degli aerei del gruppo. Lui non la prende bene. “La riconoscenza è una malattia del cane non trasmissibile all’uomo”, ripete sibillino in più occasioni. A un ricevimento a Parigi lo affronta a muso duro dandogli del “salopard”, “mascalzone”. Il patron di Lazard ora è scomparso (“se n’é andato un consigliere prezioso”, ha commentato anodino Vincent). Ma il figlioccio ha fatto tesoro delle sue lezioni. Alla Borsa di Parigi, malgrado le accuse di irregolarità e i ricorsi in tribunale, ha appena conquistato i videogiochi Gamesoft, il gioiello della dinastia Guillemot cui ora vuole sfilare pure Ubisoft. In Italia – complici i malintesi veri o presunti su Premium – sta attaccando al cuore l’impero di Arcore, rompendo la storica intesa con Silvio. Chi trova un amico, dice la saggezza popolare, trova un tesoro. Specie – come capita spesso a Bolloré – se riesci a portargli via tutti i beni di famiglia.
Ettore Livini, il Corriere della Sera