La società telefonica ha provato a più riprese ad aumentare le tariffe a consumo, ma il Garante si è opposto rilevando il rischio di “esclusione sociale” per decine di migliaia di clienti, spesso poveri o anziani. Una lettera di ottobre respinge anche gli ultimi aggiustamenti proposti da Tim, che potrà alzare i prezzi solo se dimostrerà di sopportare costi aggiuntivi
Il vecchio telefono di casa è un po’ come l’acqua del rubinetto. È un servizio di base, utile soprattutto agli anziani, e Tim lo dovrà offrire con tariffe contenute e ragionevoli. Gli aumenti di queste tariffe saranno ammessi certo, ma solo dentro binari prefissati, ad esempio quando l’azienda dovrà rientrare di costi imprevisti o dell’inflazione.
Il Garante per le Comunicazioni, l’AgCom, frena nuovamente le velleità di Tim che da quasi due anni, da inizio 2015, cerca di massimizzare i profitti in arrivo dal settore della telefonia fissa. Stavolta Tim propone un aumento delle tariffe meno aggressivo, meno forte di quelli tentati tra l’anno scorso e la primavera di quest’anno; ma si infrange comunque contro il muro del Garante. Il no di AgCom arriva in una lettera di pochi giorni fa che, ancora una volta, diffida Telecom da manovre (tariffarie) spericolate.
Il braccio di ferro tra il Garante e Tim prende corpo a marzo del 2016, quando la società telefonica incappa in una multa da 2 milioni di euro. La sanzione scatta perché Tim – senza adeguato preavviso e in modo non trasparente – ha costretto centinaia di migliaia di clienti a una tariffa nuova e penalizzante. Fino a inizio 2015, Tim si è limitata a chiedere un canone di abbonamento mensile da 19 euro e 10 centesimi al minuto per chiamata. Il cliente paga di più se telefona di più. Nel 2015, di colpo i clienti vengono trasferiti dalla Luna (la tariffa a consumo) a Marte (la tariffa a pacchetto), per cui devono dare ben 29 euro fissi al mese (in cambio di chiamate illimitate verso apparecchi fissi o mobili). Il Garante si oppone e sanziona (a marzo 2016). Incassato il primo stop, Tim prova la strada diversa dell’aumento secco delle tariffe a consumo (ancora a marzo 2016): la chiamata passa da 10 a 20 euro centesimi al minuto mentre resuscita il vecchio scatto alla risposta a 20 centesimi (era uscito di scena a novembre 2014 quando costava solo 5 centesimi). Di nuovo, il primo aprile 2016, il Garante si oppone perché una chiamata di un minuto finirebbe con il costare il 300 per cento in più è perché la stangata minaccia di “esclusione sociale” decina di migliaia di clienti, spesso poveri o anziani. Sono 800 mila le famiglie investite dalla manovra. Il Garante peraltro ricorda che la società ha poco da lamentarsi visto che il canone mensile è passato da 16,64 euro mensili (di luglio 2012) a 19 euro e le chiamate fisso-fisso da 2,9 centesimi al minuto (sempre del 2012) a 10 centesimi.
Tim a quel punto ritira gli aumenti e tenta la strada del negoziato con il Garante, cui prospetta una variazione tariffaria meno dolorosa per gli utenti. Ma il Garante respinge questi aggiustamenti marginali, insignificanti; e spiega a Tim – nella lettera di ottobre – che gli aumenti potranno avvenire solo nel quadro delle regole di cornice decise nelle prossime settimane. In altre parole, la società telefonica potrà chiedere di più soltanto se dimostrerà che la gestione di quel settore le procura costi aggiuntivi; che ha dovuto noleggiare infrastrutture d’avanguardia (all’ingrosso) per assicurare il servizio; che le condizioni socio economiche del Paese sono cambiate in modo evidente; che l’inflazione ha rialzato la testa erodendo i margini dell’azienda.
Repubblica