Unicredit, Mps, Carige, caccia a 14 miliardi comincia l’autunno caldo delle banche italiane

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TRA LE SCADENZE I CORPOSI AUMENTI DI CAPITALE E ANCHE L’IMPEGNO DEL GOVERNO CON LA COMMISSIONE EUROPEA A VENDERE ENTRO IL 30 SETTEMBRE, SENZA PROROGHE, LE QUATTRO GOOD BANK: BANCA DELLE MARCHE, ETRURIA, CARIFERRARA E CARICHIETI

unicreditAutunno caldo. Un tempo lo dicevi e la gente pensava alle negoziazioni dei contratti di lavoro, alle lotte di piazza. Oggi in piazza non si vede più nessuno, tranne qualche migrante, poveretto. Ma l’autunno resta caldo su altri fronti, come quello bancario. Si torna dalle ferie con i dossier della primavera ancora squadernati, irrisolti. E diventati urgenti, perché si avvicina la chiusura d’esercizio o per scadenze dettate da autorità varie (o dal mercato). Quasi sempre si chiedono miliardi di euro agli investitori, per mettere in sicurezza una pletora crescente di istituti. Ma non era mai successo che i miliardi fossero vicini a 15: 8 per Unicredit, 5 per Monte dei Paschi, 1 per le quattro good banks Banca delle Marche, Etruria, Cariferrara e Carichieti, che il governo si è impegnato con la Commissione europea a vendere entro il 30 settembre, senza proroghe. Un bel groviglio di matasse da snodare: e non aiuta certo la cornice, fatta di crescita zero dell’Italia e di sovrana incertezza politica legata al testa a testa dei sì e dei no al referendum costituzionale per riformare il Senato. Monte dei Paschi La cacciata di Fabrizio Viola da amministratore delegato dopo quasi cinque anni rischia di riportare al punto di partenza il piano di sistemazione della banca senese, passato per le forche caudine della lettera- diktat Bce sulla cessione di sofferenze (giugno) e gli stress test che hanno avuto un esito rovinoso per la banca, Cenerentola europea delle prove di sforzo in caso di scenario avverso a fine luglio. Il fatto è che quel piano, architettato insieme a Jp Morgan e a Mediobanca in estate, sta riuscendo a costruire soltanto una delle sue due gambe. I lavori per la cessione in blocco di tutti i crediti inesigibili (27 miliardi di euro al lordo delle riserve, pari 9,2 miliardi netti), infatti, sono iniziati a tappeto, e le due perizie per valutare le 150mila posizioni – opera di Fonspa per il fondo Atlante, e di Italfondiario per conto di Jp Morgan – hanno esaminato circa due terzi delle 150mila posizioni: servirà almeno un altro mese, poi altri tre per ottenere il rating da una o più agenzie, che dia accesso alle garanzie statali Gacs sulla tranche meno rischiosa della futura cartolarizzazione. Dove siamo invece al “carissimo amico” è nell’individuazione di nuovi investitori disposti a colmare lo sbilancio che la pulizia dei libri creditizi produrrà. Jp Morgan e Mediobanca, che hanno sostituito Ubs e Citi come banche advisor del Monte essendo riuscite a creare rapporti preferenziali con Palazzo Chigi che mena le danze, avevano in mente uno o due perni che investissero attorno a un miliardo per dare nuova linfa all’azionariato e indicazioni segnaletiche a tutti gli altri. Ma dopo aver sondato le loro ricche agende per qualche settimana, le banche d’affari sono tornate a Siena con un nulla di fatto, a parte la blanda disponibilità alcuni fondi sovrani a considerare l’investimento in una banca con connotati nuovi, anche manageriali. Di qui è partita prima l’analisi sul debito subordinato, in essere per 5 miliardi e di cui si studia la conversione in azioni, forse solo per i 3 miliardi di titoli degli investitori istituzionali per evitare di dover redigere un prospetto informativo. Di qui, anche, il blitz delle ultime ore per sostituire l’ad Fabrizio Viola, cercando di smuovere le acque del mercato che restano agitate. L’arrivo di un nuovo capoazienda, ruolo per cui è dato favorito l’ex vice dg senese Marco Morelli oggi a capo delle attività italiane di Bofa Merrill Lynch, potrebbe anche dare il destro a una tempistica più compressa, che avrebbe due pro e contro incognite. Pro uno: allontana l’emissione Mps dal referendum costituzionale di fine novembre-inizio dicembre, che la renderebbe impraticabile (così hanno scritto gli analisti di Goldman Sachs e Morgan Stanley, così ritiene la platea degli investitori). Pro due: potrebbe ridurre i tempi del finanziamento ponte da 6 miliardi, con tasso in definizione ma tra il 4 e il 6%, che Jp Morgan prepara per il veicolo del Monte che si intesterà le sofferenze prima di cartolarizzarle e rivenderle. Quanto ai contro, il primo è che tiene esposta la banca, tra le più maltrattate d’Europa, a qualunque turbolenza. E il prezzo, sceso dell’80% da gennaio, non è una variabile indipendente per il successo dell’operazione, poiché comprime la possibilità di emettere nuove azioni uno sconto adeguato e multipli in linea con la concorrenza (a Piazza Affari il settore tratta circa 0,4 volte sul patrimonio netto. Il secondo contro riguarda la ricapitalizzazione di Unicredit, che l’agenda ufficiosa pone a gennaio e che potrebbe in tal caso sovrapporsi a quella senese, con svantaggi per entrambi gli istituti (specie il secondo, più debole e meno noto tra gli operatori stranieri). Banca Marche, Etruria, Cariferrara, Carichieti. L’asta di luglio per vendere le quattro società è stata fatta saltare da Bankitalia, che regge le fila nella veste di autorità di risoluzione italiana. Al di là dei motivi formali, le offerte di un paio di fondi specializzati erano troppo basse, rispetto agli 1,4 miliardi di euro della valorizzazione – già svalutata rispetto a un anno fa – degli istituti. Le offerte di Apollo e Lone Star erano sui 3-400 milioni, quindi vendere a loro le good bank avrebbe costretto il consorzio (tutte le banche italiane pro quota di mercato) partecipante al Fondo di risoluzione a spartirsi perdite per circa un miliardo. Da fine agosto è stata quindi riaperta la gara alle banche: italiane e straniere. E le ultime indiscrezioni dicono che si sarebbe aperto uno spiraglio perché Ubi, Bper, Popolare di Bari, Cariparma o Bnl possano spartirsi le spoglie delle quattro banche salvate dal governo a un prezzo più alto rispetto a quello dei fondi. Anche Intesa Sanpaolo mediterebbe una propria offerta, in extremis. Il presidente Roberto Nicastro, comunque, lavora sul doppio tavolo: per evitare di ridursi all’ultima ora – come avvenne lo scorso novembre dando vita a un’operazione pasticciata e pregna di effetti negativi per il sistema – sarebbe già avviata la trattativa con lo schema volontario del Fondo di tutela dei depositi, già sperimentato per i salvataggi di Cesena e di Teramo, e che alla mala parata potrebbe intervenire (la scadenza è il 30 settembre e Bruxelles non concederà proroghe, salvo qualche giorno per chiudere le negoziazioni in corso). Ma tra i big partecipanti al Fondo tutela, dove per far passare l’acquisizione serve un quorum del 95%, va ancora registrata l’opposizione di Unicredit, attiva su mille partite in casa propria e poco propensa a consumare altri milioni e capitale per salvataggi di banche altrui. Si vedrà con il passare dei giorni: di sicuro va scongiurato il nulla di fatto, che porterebbe verso la risoluzione i quattro istituti, con contraccolpi sui loro depositi. Unicredit Qui si lavora senza sosta ma la manovra per rafforzare il patrimonio e aumentare la qualità dell’attivo è articolata, e difficilmente potrà chiudersi prima di marzo 2017. I rumors convergono su una cessione di sofferenze lorde da circa 20 miliardi, cui lavora Morgan Stanley, per rilanciare l’attività commerciale in Italia dove qualità dell’attivo del gruppo regge male i tassi zero che piallano la marginalità. La misura aumenterà l’entità della ricapitalizzazione, che gli operatori stimano attorno agli 8 miliardi, in parallelo alle altre azioni per migliorare il patrimonio Cet1, risalito al 10,53% ma troppo vicino alla soglia minima stabilita dalla Bce per l’unica banca sistemica. Quindi molti dei gioielli di Unicredit sono in vendita. La trattativa più avviata è su Pekao, la banca polacca comprata nel 1998 e ambita da Pzu, assicuratore pubblico locale che asseconda la “ripolonizzazione” delle banche perseguita dal nuovo governo conservatore. Il programma populista di “Diritto e Giustizia”, al potere a Varsavia da fine 2015, aumenta il rischio politico per le banche (Pekao è tra i leader di mercato), ma al contempo i multipli degli istituti non ne risentono, sia perché sono ormai tutti prede sia per le misure protezioniste che obbligano i fondi locali a investire solo nel paese. Si profila dunque una vendita favorevole del 40% rimanente a Unicredit, a un prezzo tra i 3 e i 3,5 miliardi. Altri 3 miliardi dovrebbero venire dalla cessione – da capire se tramite collocamento in Borsa – di Pioneer, dove giacciono 440 miliardi di euro di risparmi in gran parte italiani. Per queste ragioni il governo potrebbe gradire che la comprasse Poste italiane; ma il favorito per l’asta resta il colosso dei fondi francese Amundi, che il neo ad Jean Pierre Mustier contribuì a far nascere quando lavorava in Soc-Gen. E circa 1,5 miliardi Unicredit potrebbe ricavarli vendendo Fineco, il gioiello della banca online che fa gola a Banca Generali e a tanti altri. La valutazione della controllata di Alessandro Foti, però, è tenuta alta dall’investimento in bond “captive” di Unicredit per 12 miliardi, che rendono un rotondo il 3% l’anno e in caso di cambio di casacca potrebbero essere venduti. In ogni caso, gli addetti ai lavori ritengono che una campagna di dismissioni anche ampia non ridurrà di molto l’ammontare della ricapitalizzazione, su cui sta iniziando a lavorare sempre Jp Morgan (in virtù dei buoni rapporti di Mustier con la banca statunitense, si dice). La banca guidata in Europa dall’ex ministro dell’economia Vittorio Grilli si appresta, dunque, a realizzare un ambito filotto, con laute commissioni, come capofila delle ricapitalizzazioni di Mps e di Unicredit. Ma l’addio di Viola a Rocca Salimbeni, con l’annesso rischio di far slittare a inizio 2017 la ricapitalizzazione della banca senese, potrebbe creare una spiacevole concomitanza con l’aumento di Unicredit, che potrebbe essere annunciato con il piano strategico di fine novembre e realizzarsi tra gennaio e marzo. Su quale delle due azioni rivali consiglierebbe di investire, a quel punto, Jp Morgan? Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco (a sinistra) e Mario Draghi , presidente della Bce.

Repubblica