Lo scrittore di Praga, salve pur detestando il suo impiego, buy fu un assicuratore modello, stimato da superiori e sottoposti. Se tutti lavorassino con la sua dedizione e il suo senso del dovere, sarebbe una rivoluzione. Certo sappiamo tutti che Franz Kafka è stato un grandissimo scrittore. Anomalo: visionario, acuto, con una intelligenza che lo portava ad anticipare problemi, inquietudini e angosce di universale interesse. Massimo riferimento Il processo, con la storia di un uomo imputato processato condannato e giustiziato senza riuscire neanche a sapere di quali reati sia stato accusato (non vi viene in mente qualcosa di simile, nella recente storia italiana?). Pochi sanno, invece, che per guadagnarsi da vivere Kafka svolse per tutta la sua breve vita un lavoro da impiegato, come assicuratore. Non era un caso unico: come lui molti celebri letterati sfangarono la vita con incarichi impiegatizi, Balzac e Dostoevskj, Dickens e Gogol, Stendhal e Maupassant, Melville e Poe, Musil e Neruda e Orwell, in tempi più recenti Bellow e Borges. In Italia, poeti come Quasimodo e Montale e Saba, ma anche Collodi, Svevo, Gadda, Fenoglio, Chiara. Come impiegati assicuratori, in particolare, lavorarono – tra gli altri – Thomas Mann e William Faulkner, Jack London e George Bernanos. Tutti, più o meno, scaldavano la sedia, aspettavano la fine del mese per incassare un prezioso stipendiuccio, e nelle ore di lavoro si dedicavano ai loro romanzi o alle poesie. Kafka, no. Detestava anche lui quell’impiego, ma si impegnò ad applicarsi a quanto era previsto nei suoi doveri con un rigore e una scrupolosità,in quelle condizioni, impareggiabili. Fu assunto nella sede di Praga delle Assicurazioni Generali e lì imparò il mestiere, per un anno, poi si trasferì all’Istituto di Boemia per le assicurazioni dei sinistri. E lì si comportò con tale abnegazione da meritarsi l’apprezzamento di superiori e sottoposti, era ben voluto per la sua umiltà dal direttore alla donna delle pulizie. E alla fine ottenne anche un riconoscimento concreto, una promozione a ispettore nel settore degli infortuni sul lavoro. Non parlava mai di sé come scrittore: tra quelli che lo conobbero negli uffici, molti neanche sapevano che fosse l’autore de La metamorfosi , che aveva pubblicato con un certo successo. Uno studioso, Michael Muller, racconta: «Nei rapporti con gli impiegati del suo reparto Kafka era pieno di tatto, evitava le confidenze e i rapporti personali e schivava i rapporti politici». Esattamente da questa particolarità sono stato colpito, fino al punto da dedicargli un librino, di recente pubblicazione: Nel nome di Kafka, l’assicuratore ( L’attimo fuggente editore , pp. 136 , euro 22 ). E ora la mia riflessione è questa, su un’ipotesi di (impossibile) realizzazione: «E se tutti lavorassero come Kafka, in Italia?» Certo, nella vita – è la prima cosa che raccomando ai giovani, quando qualcuno mi chiede consigli – è preferibile scoprire e accertare la propria identità, la vocazione che abbiamo in cuore, e a quella dedicarsi. Indipendentemente dalle difficoltà e dal successo, per tutta l’esistenza: a mio parere solo così si può sperare di non accumulare rimpianti e rimorsi. Ma quando questa scelta,come fu per Kafka, non sia possibile? Sarebbe augurabile che tutti svolgessero il proprio lavoro, anche se fastidioso e indesiderato, ineccepibilmente, con coscienza del dovere. E saremmo un Paese migliore, sotto ogni aspetto. In Italia, non è così. A prescindere, come si dice per scherzo, che tutti vorremmo fare il ct della Nazionale,più seriamente assistiamo allo “spettacolo” di magistrati che vogliono fare politica o addirittura irrompono disinvoltamente in politica per poi, addirittura, ritornare in magistratura, se sono bocciati da un flop. Molti politici rivelano un formidabile talento in soprusi e ruberie (traduzione: sono ladri, non matricolati), e troppi comunque pensano ai loro interessi anziché a quelli dei cittadini. Alcuni banchieri speculano in collusione con autentici truffatori, senza salvaguardare gli interessi dei risparmiatori. E così via. Vi sono anche casi estremi: Berlusconi non amava la politica, ma fu costretto a scendere in campo, per salvare il proprio patrimonio e le sue aziende, fino a diventare premier, ma come politico non riuscì ad avere il successo che indiscutibilmente conquistò come imprenditore. Al contrario, uno dei suoi principali avversari, Eugenio Scalfari, per tutta la vita non si è accontentato di essere un grande giornalista, ma ha sognato di farsi capo del governo, a ogni capo del governo ha cercato di insegnare la rava e la fava; di recente ha scavallato l’ultimo gradino e si misura perfino col pontefice, non risparmiando, né a lui né a noi, suggerimenti e consigli. (In tempi remoti Scalfari, così si dice, scivolò nell’orribile frase: «Lei non sa chi sono io!». Il guaio è che non lo sapeva e non lo hai mai più capito neanche lui…). Dunque, che Paese saremmo, se tutti lavorassimo con l’impegno di Kafka, nel ruolo che il destino ci ha assegnato? Nel Paese in cui chiunque – o quasi – per un pubblico ufficio indossi una divisa, e solo per questo si sente autorizzato a tormentarci e mortificarci, anziché sbrigare la pratica che gli è stata assegnata? Nel libro, ho pubblicato alcune relazioni affidate a Kafka sul lavoro, e scovate da una mia brillante ricercatrice: è sbalorditiva la cura che lo scrittore in questi scritti dimostra, per l’attenzione esemplare a svolgere, senza arroganza e senza sciatterie, i compiti che gli sono assegnati. Per precisione, infine, vorrei ricordare che Kafka aveva una pessima opinione di sé come scrittore, e forse anche per questo accettava con modestia il lavoro da impiegato: desiderava perfino che i suoi racconti incompiuti fossero bruciati, distrutti. Affidò questo incarico all’amico Max Brod, che per fortuna – della letteratura e di chi ama Kafka non lo rispettò.
Di Cesare Lanza, Libero Quotididiano