Il premier sfida l’opposizione: “Se perdo referendum ne trarrò le conseguenze. Ma voglio rivedervi il giorno dopo la vittoria alle urne”. La riforma passa con 180 sì, shop 112 no e un astenuto. Minoranza Pd: “Si a referendum, store ma solo con elezione diretta senatori”. Decisivi i voti di verdiniani e delle senatrici vicine a Tosi
Il presidente del consiglio Matteo Renzi si è presentato nell’aula del Senato dove, decease al termine della discussione generale sul ddl Boschi riguardante le riforme costituzionali, ha preso la parola per la replica. Dopo il suo intervento le dichiarazioni di voto e quindi la votazione: il disegno di legge è stato approvato in terza lettura con 180 sì, 112 no e un astenuto. Il testo torna ora alla Camera, che fra tre mesi potrà votare in via definitiva. Un margine ampio: 19 voti in più dei 161 richiesti dalla maggioranza assoluta prevista dall’articolo 138 della Costituzione per il secondo voto sulle riforme costituzionali. Ma hanno un peso politico forte i 17 sì dei verdiniani di Ala, di due forzisti (Villari e Bocca) e delle tre senatrici di Fare, vicine a Flavio Tosi. Anche se i renziani sottolineano: “Mancavano cinque esponenti della maggioranza che avrebbero votato con noi”. Il premier ha ricordato l’inizio della sua esperienza di governo, nel febbraio del 2014. “In Europa i riferimenti all’Italia erano fatti accomunandola alla Grecia. Abbiamo accettato la sfida nel momento più difficile. E in aula al Senato esordii con una provocazione: voglio essere l’ultimo presidente del Consiglio che chiede la fiducia a quest’Aula. Ma se l’Aula confermerà il voto già espresso in prima lettura nell’agosto 2014, quella provocazione diventerà realtà”. Chiedendo la fiducia per il suo governo al Senato, in quel 24 febbraio di due anni fa, Renzi disse testualmente: “Comunico fin dall’inizio che vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest’Aula (…). Noi oggi non immaginiamo di essere gli ultimi a chiedervi la fiducia perché abbiamo un pregiudizio su di voi (senatori e senatrici, ndr), ma perché abbiamo un giudizio organico sull’Italia per il quale o si ha il coraggio di operare delle scelte radicali e decisive, oppure non perderemo soltanto la relazione tra di noi, ma anche il rapporto con chi da casa continua a pensare che la politica sia una cosa seria”
Due anni dopo quella “provocazione”, Renzi è tornato in Aula al Senato per annunciare “il giorno in cui nessuno credeva che saremmo arrivati”. “L’idea che dei legislatori non potessero intervenire sul proprio ramo del Parlamento – ha ricordato il premier -. Generazioni di parlamentari hanno immaginato che si potesse superare il bicameralismo paritario. Dobbiamo riconoscere che il bicameralismo perfetto era il compromesso di allora, non era la prima scelta di nessuno. Questo è il giorno in cui nessuno credeva che saremmo arrivati e ci siamo arrivati perché avete avuto coraggio e fiducia voi”. “Questa è una giornata storica – ha sottolineato Renzi -. La storia si occuperà di questa
giornata, voi avete deciso di scrivere la storia. Il Paese vi deve una gratitudine istituzionale”, ha aggiunto il premier ai senatori e alle senatrici, ringraziando in particolare “il ministro Boschi per la straordinaria tenacia e determinazione che ha mostrato”. Ma Renzi ha voluto ricordare anche il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano: “Se non ci fosse stato il suo discorso nell’aprile 2013 non ci sarebbe questa riforma e non sarebbe in piedi questa legislatura”. In un altro passaggio, il presidente del Consiglio ha tenuto a precisare che con la riforma “noi non tocchiamo il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Carta Costituzionale”, parole su cui in Aula si è levata qualche contestazione. Ma Renzi è andato avanti: la riforma “non incide sul ruolo del presidente della Repubblica e degli organismi di contrappeso come sono stati definiti dai costituenti del 1947”.
Il passaggio più atteso del discorso del presidente del Consiglio riguardava le conseguenze di un eventuale voto negativo al referendum popolare sulle riforme costituzionali. “Il punto chiave di questa discussione non è la personalizzazione esasperata né di trasformare un referendum in un plebiscito – ha scandito allora Renzi -. Il potere che noi esercitiamo, e da cui non ci nascondiamo, ha un senso se viene messo in campo per cambiare l’Italia. Per questo prendo l’impegno: in caso di sconfitta ne trarremo le conseguenze”. A questa frase, dall’opposizione sono partiti applausi e grida di approvazione. “Ma per questo stesso motivo – ha incalzato subito dopo il premier – sarà ancora più bello vedere il giorno dopo la vittoria del referendum le stesse facce gaudenti che osservo adesso in questa Aula”.
L’iniziativa della minoranza Pd. Intanto, nella sala Nassirya del Senato è stato presentato dai senatori del Pd Federico Fornaro (primo firmatario), Paolo Corsini e Maria Grazia Gatti il ddl “Norme per l’elezione del Senato della Repubblica” che, stando alle parole di Fornaro, garantisce l’elezione diretta da parte dei cittadini dei 74 senatori che sono anche Consiglieri regionali e i 21 senatori che sono anche sindaci. Potrebbe essere operativa in due anni.
In ciascun collegio, spiega Fornaro, “ci saranno liste con un unico candidato. Il giorno delle elezioni regionali l’elettore riceve due schede. Una per il rinnovo del Consiglio regionale e una seconda scheda nella quale potrà scegliere il senatore del suo collegio, con il vincolo che un genere non potrà essere rappresentato per oltre il 60%. Dopo le consultazioni verranno definiti i seggi spettanti a ogni lista con un sistema proporzionale puro e i senatori verranno scelti attraverso una graduatoria dei collegi”. No, quindi, al listino bloccato, “già stato bocciato dalla Corte costituzionale”, no anche ai doppi incarichi per i senatori-consiglieri regionali. Diverso il discorso per i 21 senatori-sindaci: “Hanno già avuto un’investitura popolare – sottolinea il senatore dem – quindi la loro scelta non può essere lasciata ai cittadini: sarà il Consiglio regionale ad eleggerlo sulla base di una terna di nominativi”.
L’elettorato attivo e passivo sarà equiparato a quello della Camera. Quanto all’entrata in vigore della legge, Fornaro prevede “una fase di doppio binario. Se andiamo al voto nel 2018, alcune regioni voterebbero con questa legge” mentre per altre che vanno a scadenza dopo quella data si applicherebbe una norma transitoria per la quale i senatori saranno scelti dai Consigli regionali. “Nel giro di due anni tutti sarebbero eletti secondo l’indicazione di questa legge”.
Nessun sì immediato a referendum. Dai senatori della minoranza arriva un avvertimento al premier Renzi: “Noi voteremo sì al ddl di riforme costituzionali, ma questo non significa un nostro sì immediato e automatico al referendum sulle riforme, che andrà guadagnato con passaggi politici coerenti”. “Una delle condizioni che poniamo – sottolineano i senatori dem – è che si dia pieno compimento al testo approvato, e quindi si dia attuazione alla legge ordinaria” per l’elezione dei nuovi consiglieri senatori, perché “quella prevista dalla riforma costituzionale non è una elezione semidiretta. I consigli regionali si limiteranno a una ratifica delle scelte degli elettori. Ci aspettiamo dunque la giusta attenzione alla nostra proposta di legge, perché a questa noi abbiamo subordinato il nostro consenso alla riforma stessa”.
Italicum. I senatori Pd hanno sottolineato anche l’urgenza di rivedere la legge elettorale. “Dopo il via libera alle riforme e dopo le consultazioni amministrative serve un ripensamento sull’Italicum, su cui restano tutte le criticità e tutte le nostre perplessità. L’Italicum venne approvato nel momento in cui il Pd aveva appena incassato il 40% dei consensi alle europee. Ma presenta un rischio evidente: che alle prossime elezioni si venga a costituire il Tcr, il partito ‘tutti contro Renzi’. Temo che alle amministrative ci saranno cocenti smentite alle attese di un Pd vincente. Il nostro auspicio è che si ripensi all’Italicum, un ripensamento intorno ai nominati, alle pluricandidature, alle alleanze sarebbe opportuno”.
“Repubblica”