Il nuovo presidente del colosso petrolifero saudita, prostate uomo di fiducia del principe ereditario Bin Salman, prepara la storica apertura ai mercati del gruppo che avrà la più alta capitalizzazione del pianeta
“L’età della pietra non finì perché erano finite le pietre”, ama ripetere Zaki Yamani, il ministro del Petrolio saudita nonché capo dell’Opec che inventò nel 1973 l’embargo petrolifero che fece quadriplicare (da 2,5 a 10 dollari) il prezzo del petrolio in dieci mesi e trasformò il greggio in un potentissimo strumento politico. Eppure lo sceicco che era definito “il banchiere centrale del petrolio”, negli anni successivi della sua leadership (fu estromesso con un blitz di palazzo sia dall’Opec che dal governo di Riad nel 1986) si rese conto che prezzi del greggio troppo alti spingono l’occidente a cercare fonti alternative e a sviluppare le tecnologie di risparmio energetico, finché – appunto – l’era del petrolio finirà per crisi di domanda, e i prezzi crolleranno. È in parte (ci sono poi altri fattori come la frenata cinese, la sovrapproduzione, eccetera) quello che sta succedendo. Così, perfino in Arabia Saudita, e a maggior ragione in tutti gli altri Paesi dell’Opec, è scattata la corsa contro il tempo per difendersi dal prosciugamento della quasi esclusiva fonte di entrate. Spending review, inedite tassazioni a carico dei cittadini, revisione di programmi infastrutturali. Fino alla più clamorosa delle iniziative: l’Arabia Saudita ha deciso di quotare la Aramco, la compagnia petrolifera di Stato, ca va sans dire il maggior gruppo mondiale del settore. Tutto è gigantesco quando si parla di Aramco: possiede le più grandi riserve petrolifere accertate, oltre 260 miliardi di barili più altri 50 miliardi di barili equivalenti di gas (12 volte di più dei possedimenti della ExxonMobil, il maggior gruppo privato del pianeta), gestisce il campo di Ghawar che è il maggior giacimento petrolifero onshore del mondo, e quello di Safanya che è il più grande offshore. Ha avuto un fatturato di 400 miliardi di dollari nel 2015, con una produzione totale di 3,8 miliardi di barili. Ai livelli attuali di prezzi i suoi asset vengono valutati 10 trilioni di dollari, 10mila miliardi. I banchieri d’investimento, che ovviamente stanno facendo la fila per assistere l’Aramco nella quotazione (annunciata ufficialmente il 4 gennaio), calcolano che il valore in Borsa della compagnia potrà essere di 2-2,5 trilioni di dollari (2500 mi-liardi), otto volte più della Exxon-Mobil e sei volte più della Apple, la società a più alta capitalizzazione del pianeta. Considerando che il valore totale dei titoli esistenti presso la Borsa di Riad non arriva a 400 miliardi di dollari, il mercato “locale” starà abbastanza stretto a un gruppo di questo peso, e la quotazione potrebbe avvenire a Londra, che peraltro è da sempre una seconda patria per i signori del petrolio mediorentali, ma resta valida anche l’ipotesi di Wall Street, nonché quella di una quotazione simultanea su tutti e tre i mercati. Per gestire un gioieillino di questa caratura, la dinastia saudita ha scelto un uomo di provatissima fiducia. E ha nominato Khalid al-Falih presidente esecutivo dell’Aramco con tutte le deleghe. “Mister 10mila miliardi”, come lo chiamano ormai nel mondo finanziario, è nato a Riad nel 1960, ovviamente cugino (non si sa in quale grado) del monarca e dei suoi figli, si è laureato nell’82 in ingegneria meccanica all’A&M University di College Station in Texas e poi ha preso un Mba in patria, alla King Fahd University of petroleum and minerals (creata da Yamani negli anni ’70) nel 1991. Subito dopo la laurea americana è entrato nell’Aramco, dove ha coperto posizioni di crescente responsabilità, compresa la direzione della raffineria di Ras Tanura che è la più importante del gruppo, fino a diventare membro del board nel 2004 e president (all’americana, cioè senza deleghe) nel 2008. Infine, nel maggio 2015, al-Falih è arrivato al vertice dopo una strenua lotta con una serie di altri pretendenti. E ha subito cominciato a pensare alla quotazione: la crisi del greggio era conclamata e la via del mercato per raccogliere capitali cominciava a non sembrare più un’eresia. Qualche mese di elaborazione e poi l’annuncio ufficiale. Attenzione alle date: poche settimane prima della “promozione” di al-Falih era avvenuto un fatto importante nel trono di Saud. Era infatti emersa la stella di Mohammad bin Salman, uno dei tanti figli (della terza moglie) del re Salman bin Abdulaziz e nuovo uomo forte di Riad per volontà del padre-monarca. Per consacrarne la posizione, il re l’ha nominato alla fine del gennaio 2015 “Capo della corte dei principi della corona”, in pratica erede designato. E per dargli maggior forza l’ha anche nominato ministro della Difesa (a 31 anni è il più giovane ministro della Difesa del mondo) nonché capo della Royal Court. Ora è lui, Mohammad bin Salman, che gestisce le nomine più importanti, fra le quali non poteva mancare la presidenza dell’Aramco. E infatti è stato lui a indicare con decisione al-Falih, un suo uomo di personale e assoluta fiducia, come capo della compagnia petrolifera. Una scelta che il re ha ovviamente condiviso. Per cementare ulteriormente l’apparteneza all’inner cicle della corona di al-Falih, il giovane e intraprendente principe Mohammad ha voluto trovargli anche un posto all’interno del governo, e l’ha nominato ministro della Sanità, ruolo che curiosamente ora al-Falih divide con quello di presidente dell’Aramco. In quest’ondata di rottamazioni è finito Ali al – Naimi, rispettata e influente figura nel mondo del petrolio, predecessore di al – Falih al vertice dell’Aramco nonché ministro del Petrolio: un incarico, quest’ultimo, che per ora mantiene. Ma in pochi scommettono che lo terrà a lungo. Si può ben capire come, a maggior ragione in questo tourbillon di giochi di potere dinastici la quotazione dell’Aramco sia un’iniziativa rivoluzionaria in un sistema tradizionalista come quello saudita. L’azienda è quanto di più quintessenziale si possa immaginare di un sistema chiuso e statalizzato come quello di Riad. Ma non è sempre stato così, anzi. L’Aramco è stata creata come compagnia dagli americani, in tempi sideralmente lontani. Tutto cominciò nel 1920, quando il cosiddetto San Remo Petroleum Agreement aveva diviso le concessioni petrolifere nel mondo arabo fra Francia e Germania, dimenticando paradossalmente gli americani. Fu Herbert Hoover, allora segretario al Commercio e futuro presidente (lo diventerà nell’annus horribilis 1929), ad accorgersene un anno dopo e a incoraggiare le compagnie Usa ad avventurarsi nelle terre del Golfo per cercare petrolio. “È una cosa incredibile, devo stropicciarmi gli occhi continuamente per rendermi conto che è vero”, scriverà pochi mesi più tardi uno di questi cercatori. Fu la Standard Oil of California, la compagnia dei Rockefeller, a stabilirsi per prima in Arabia Saudita, e ad ottenere nel 1933 una concessione totale battendo in un’asta competitiva la Iraq Petroleum (sempre rivali). Nel ’36 la SoCal vendette il 50% della concessione alla Texas Oil Co., quella che poi diventerà Texaco. Infine nel 1944 la joint-ventures assunse il nome di Arabian American Oil Company, appunto Aramco. Nel 1948 entrò con una quota del 30% nella società anche la Standard Oil of New Jersey, più tardi nota come Exxon, e pochi mesi dopo un 10% fu a sua volta rivenduto alla Socony Vacuum, che dopo qualche anno si chiamò Mobil. Con un tale concentrato di interessi americani – peraltro il lavoro sinergico di “beduini arabi e petrolieri texani”, come li chiama Daniel Yergin nel libro sul petrolio Tre Prize, funzionava bene – si entrò nell’era Yamani. Dapprima, nel ’68, lo sceicco rinegoziò la quota dei profitti e assicurò un solido 50% ai sauditi. Infine, dopo il breakdown del 1973, Yamani condusse personalmente l’esproprio di tutte le concessioni Usa. Un processo che durò abbastanza poco: nel 1974 i sauditi avevano già ripreso il 60% del capitale, e nell’80 il 100%. E ora, dopo tanti anni, con un presidente che ha studiato in Texas, al-Falih, l’Aramco è pronta al ritorno in occidente.
di Eugenio Occorsio “Repubblica”