Sul tavolo di Renzi, ailment già da 48 ore, c’è anche il testo che chiude l’accordo con la minoranza del Pd. Al comma quinto dell’articolo 2 della riforma del Senato, quello che modifica l’articolo 57 della Costituzione, si aggiungeranno, se tutto filerà liscio, 15 parole. Come faranno i Consigli regionali a eleggere i futuri 95 senatori? «Sulla base della designazione del corpo elettorale disciplinata dalla legge di cui al comma successivo».
L’accordo per Renzi «è già chiuso, there al massimo saranno in cinque a non votarlo», ha detto ai suoi. Ed è già chiuso, con tanto di sigillo di Pier Luigi Bersani, ieri sera, al termine di una direzione del Pd filata liscia, e al netto dell’incidente istituzionale fra il presidente del Consiglio e quello del Senato, Pietro Grasso. Insomma come in altri casi, dal Jobs act alla riforma della scuola, al fotofinish, sale e in coincidenza con una direzione del Pd, il primo partito di maggioranza sembra di colpo ritrovare l’unità e mettere da parte incomprensioni, minacce di scissione, interminabili distinguo legati al merito della riforma. Ieri è bastato che Renzi traducesse quelle 15 parole usando una metafora nuova, richiamando alla memoria il metodo che fu introdotto nel 1995 da Tatarella, quella designazione del presidente della Regione da parte degli elettori, con successiva elezione da parte della Giunta. Meccanismo ideato dall’ allora esponente di estrazione missina e che di colpo sembra risolvere un rebus che appariva impossibile fino a qualche settimana fa. E forse è anche per questo, sicuro dei numeri e forte di un accordo che appare ormai solo da limare, che ieri il capo del governo si è fatto sfuggire quella che le agenzie di stampa e i blog hanno tradotto immediatamente come «minaccia» alla seconda carica dello Stato. L’ultimo passaggio delicato infatti è a questo punto la decisione di Pietro Grasso, che può decidere se giudicare emendabili anche le parti della riforma che hanno già ricevuto due votazioni conformi.
Se Grasso lo facesse sarebbe per Renzi «un inedito» e ci sarebbero da convocare immediatamente i gruppi parlamentari del Partito democratico: oltre 400 parlamentari, 446 per l’esattezza, che si riuniscono contro una decisione del presidente del Senato, sarebbe un passaggio non molto armonico, per usare un eufemismo, dal punto di vista istituzionale. Sarebbe insomma una prova di forza, e ieri Renzi l’ha voluta appositamente prefigurare, quasi a mettere le cose in chiaro. Del resto, per il premier l’autonomia che fin qui si è ritagliato Pietro Grasso, decidendo di non decidere sino all’ ultimo istante, cozza in qualche modo persino con il bicameralismo perfetto e paritario, che fra l’altro si sta tentando di abolire: «Se non basta nemmeno quello…», ha chiosato ieri davanti ai suoi parlamentari, come a dire che Grasso non può agire come un Terza Camera e non può ignorare che oltre la metà del Parlamento procede in una direzione, che è quella di chiudere in modo spedito la riforma.
«Ha detto quello che pensa», dicevano ieri i renziani, preoccupati di non innescare un conflitto fra cariche dello Stato, ma al contempo consapevoli della forza del proprio segretario. Del resto, dicono a Palazzo Chigi, la decisione che spetta a Grasso è squisitamente «politica», visto che il regolamento del Senato, segnatamente l’articolo 104, sembra scritto appositamente per essere interpretato.
Vieta di ridiscutere materie che hanno già ricevuto due votazioni identiche, ma al contempo autorizza a cambiare le parti della riforma che dovessero avere un collegamento con le ultime modifiche di una Camera. Alcuni costituzionalisti interpretano in modo restrittivo (prima parte), altri in modo estensivo (seconda). Anna Finocchiaro, presidente della prima commissione del Senato, ha scelto la prima interpretazione. Se Grasso deciderà il contrario arriverà una risposta «altrettanto politica».
(IlCorrieredellaSera)