Spero non mi prendiate per pazzo se oggi dedico l’editoriale a un vassoio di tortelli d’erbetta. Se avrete la pazienza di arrivare in fondo, vedrete che l’idea è meno folle di quel che potrebbe sembrare, perché a volte le piccole storie di vita quotidiana spiegano le cose grandi della politica e dell’economia meglio d’un trattato.
Dunque. Giovedì sono stato all’Università di Parma con Stefano Lorenzetto, il quale doveva tenere una lezione su come si fa un’intervista. Lorenzetto è un grande giornalista. È anche una grande forchetta: per la precisione, centoquindici chili di forchetta. Così, finita la lezione, l’ho portato a pranzo: un momento che per molti di noi è uno dei due più importanti della giornata (l’altro è la cena). Sedutici in trattoria, abbiamo ordinato due piatti, appunto, di tortelli d’erbetta. Lorenzetto – che è veronese, e quindi abituato a mangiare bene, ma non a mangiare “quei” tortelli – ne è rimasto estasiato. Al punto di chiedere al titolare della trattoria se gliene vendeva quattro o cinque porzioni da portare a casa. «Guardi», ha detto il ristoratore, «che di tortelli pronti non ne abbiamo». «Ma come non ne avete? E quelli che ho appena mangiato?», ha chiesto Lorenzetto. «Li facciamo al momento », è stata la risposta. «Al momento?». «Sì, al momento. Al massimo un paio d’ore prima per farli asciugare un po’ in frigorifero». Insomma. Ne è seguita una discussione su come si fanno i tortelli, con Lorenzetto a bocca aperta, questa volta non per prepararsi a ingurgitare, ma per lo stupore. Alla richiesta di confezionare quelle quattro o cinque porzioni da portare via, il ristoratore non ne voleva sapere: «Quando li mangerà, non saranno più gli stessi». Alla fine ha però ceduto, malvolentieri, alle suppliche, e glieli ha fatti. Lorenzetto ha garantito che i tortelli sarebbero rimasti nel baule della macchina per non più di un’ora e mezza, il tempo di arrivare a Verona; e che sarebbero stati consumati la sera stessa. La mattina dopo gli ho chiesto come aveva trovato, la sera, i tortelli. «Straordinari», mi ha risposto. Ma aggiungendo, un attimo dopo: «Mia moglie e i miei figli erano entusiasti. Pure io lo ero: però, avendoli mangiati sul posto a mezzogiorno, debbo riconoscere che quelli della sera avevano mezzo punto in meno». Questa insomma è la piccola storia di un ristoratore parmigiano che avrebbe rinunciato volentieri a un guadagno pur di non vendere un prodotto con un mezzo punto in meno. Se l’ho raccontata, è perché credo che racchiuda il segreto del successo di qualsiasi attività imprenditoriale, grande o piccola che sia. Le imprese veramente vincenti non sono mai figlie solo della ricerca di un interesse, ma anche e soprattutto di una passione. Se l’Unesco ha premiato Parma come capitale mondiale del gusto per il 2016, è perché questa volta Parma ha saputo finalmente fare squadra, come ha scritto ieri il nostro Sandro Piovani; ma anche, come Piovani sa molto meglio di me, perché dietro c’è la lunga storia di una gastronomia vissuta non solo come un lavoro, ma come un’arte, quasi come una religione. Parma ha molte di queste passioni, che saranno la base per ripartire. Intanto, dopo tanti guai godiamoci questo riconoscimento dell’Unesco, che può essere una grande opportunità. Buona Santa Lucia a tutti.
michele.brambilla@gazzettadiparma.it
dalla “Gazzetta di Parma” del 13 dicembre 2015