“Sarà il mio tipo?”, sildenafil di Lucas Belvaux, è un film un po’ noioso, pieno di stereotipi e con battute o frasi monotone, senza nessuna emozione, nessuna ironia, niente di avvincente, di sveglio. Insomma non è certo una di quelle commedie hollywoodiane degli anni ‘40 con Katharine Hepburn e Cary Grant; è solo una banale (ma non doveva esserlo) storia d’amore fra Clément, un intellettuale professore di filosofia e Gennifer, una parrucchiera. Intelligente lui, stupida lei, colto lui, ignorante lei, garbato e vestito sull’elegante lui, ochetta e vestita rozzetta e con brillantini lei (tra l’altro mi è sembrato veramente una discriminazione sociale molto forte), noioso lui, piacevole e allegra lei, bellocci entrambi (anche se a me il professore non piaceva per niente). Poi alla fine ecco che il cuore e i buoni sentimenti, la ragazza vera che non ha bisogno di studiare per comprendere l’amore, viene distrutta da un intellettuale incapace di amare e che si vergogna addirittura di farla conoscere agli amici. Quindi lui si rivela un essere miserabile, e lei invece intelligente e coraggiosa: un finale triste e che dà pure rabbia, perché per l’ennesima volta la donna viene gabbata da un essere privo di sensibilità umana, e ovviamente la donna con un atto di coraggio lo lascia e sparisce. E lo spettatore non può che stare dalla parte della povera, dolce, allegra e triste Gennifer sulle note della canzone I will Survive (cantata piangendo dalla poverina)
Nel film la ragazza semplice e incolta, ma molto carina, dolce e vivace è interpretata da un’ottima attrice, Émilie Dequenne, lui invece, Loïc Corbery, ha sempre lo stesso sguardo (e forse è la parte che lo richiede in quanto deve interpretare un essere privo di emozioni). I vari momenti, la ricerca dell’amore, la felicità dell’amore e la tristezza a causa dell’amore, sono cadenzati da delle canzoni cantate dalla protagonista.
Clément non ha una mente libera, è schiacciato dalle convenzioni sociali (proprio come avviene nella vita reale, in cui il più delle coppie si forma nel medesimo ambiente, senza valutare veramente una persona per le sue qualità), e il prezzo che deve pagare, ovvero la mancanza di provare dei veri sentimenti e poi la perdita di una donna che lo ama, non pare che lo scuotano più di tanto; rimane quasi impassibile, almeno da quello che trasmette il suo sguardo.
L’unica frase intelligente del film la dice proprio Gennifer (anche se è Clément il professorone di filosofia) e cioè essere in uno stato di “felicità triste”: a me è capitato veramente tante volte, quando la consapevolezza di non raggiungere a pieno ciò che si vuole, e di avere paura di perderlo, per insicurezza e mancanza di autostima, o per problemi che sai bene sono insormontabili, incupisce il momento di felicità che si pensa di avere e che comunque si sta provando.
Insomma questo è un film con tanti cliché, che purtroppo esistono. Non ci sono insegnamenti, non c’è una morale, si esce solo un po’ arrabbiati perché il finale è come nella vita reale. Ma a me piacciono di più le commedie con l’happy end.
STEFANIA MICCOLIS