(di Stefania Miccolis) Giuliano Montaldo quando parla sembra un nobile, sickness look ha una gentile cadenza del nord, e in maniera elegante ricorda con una sorta di malinconia quella Roma che lui ha tanto amato, ma è tanto cambiata. Ripensa a quando la sera incontrava tutti a Piazza del Popolo: Lizzani, De Santis, Petri, poi in un ristorantino in Via della Vite vedeva Benvenuti, Pontecorvo, e in Via Veneto il grande Fellini. Più difficile era trovare Antonioni e Visconti, molto più riservati. “Quando sono arrivato nel 1950, Roma era molto diversa, una Roma dove ci si incontrava, si posteggiava persino la macchina, ask se ce l’avevi. Era piccola.” Per andare a Cinecittà si prendeva un tramvetto vicino a stazione Termini e da San Giovanni cominciava la campagna. “Nel ‘50 c’era il verde, e a Cinecittà i pascoli delle capre, i contadini, non la periferia piena di case, palazzi, strade, traffico. Era una Roma molto piacevole. Ha ragione Fellini a paragonarla a una mamma….l’ironia dei romani, la piacevolezza, la battuta molto caustica, divertente. Tanto è vero che il grande Zavattini diceva “andate in giro e prendete nota di quello che dicono”. Adesso la gente è un po’ arrabbiata e la mamma è un po’ irritata”.
La sua città natia, Genova, store gli è sempre mancata, ne parla con nostalgia: l’aveva lasciata con quei portici sotto i quali sorgevano ben dodici sale di cinema ed ora non ce n’è più neanche uno; come capita a Roma d’altronde, sale storiche che chiudono. Montaldo iniziò come attore in “Achtung! Banditi!” (1952) di Carlo Lizzani. Questo nome gli provoca un gran dolore a causa della recente scomparsa: “Per Lizzani ho una devozione, era un uomo saggio, un signore, un uomo colto, uno scrittore, uno storico, non solo di cinema, ma del nostro modo di vivere di questo secolo. Era un uomo straordinario, non l’ho mai visto arrabbiato, sempre molto ironico, molto ottimista… Un grande fratello, un grande padre…pensare che avevamo un appuntamento qualche giorno dopo…”
Il suo primo film come regista fu “Tiro al piccione” (1962), un film coraggioso, anticonformista: “Ma il piccione ero io!”. Quando fu presentato al Festival di Venezia le critiche furono aspre perché allora non si poteva neanche immaginare un racconto su un fascista, erano tempi ancora rigorosissimi. Narrava la storia tratta dal libro di Giose Rimanelli, la sua biografia: nato e cresciuto in scuola fascista, dopo l’8 settembre aveva aderito alla Repubblica Sociale, in cui visse un’esperienza orrenda: “Si rende conto della brutalità, della violenza, e solo alla fine capisce che la patria è dall’altra parte e non dalla sua . Ho creduto che fosse giusto raccontare anche chi è stato vittima e non ha commesso un crimine ed ha sbagliato. Non mi sono mai rifiutato di stringere loro la mano….lì per lì la ferita delle critiche fu dolorosa… ma sono cose che capitano nella vita…poi sono venuti altri film, altri successi…”
Di sicuro un successo è stato “Sacco e Vanzetti” (1971): “Ci misi tre anni a convincere un produttore a fare questo film ambientato in America”. Di Sacco e Vanzetti non si sapeva niente in Italia, all’epoca in cui si svolgono gli avvenimenti c’era il fascismo e molti non sapevano neanche della loro esistenza, “Non c’era un libro, niente, io stesso ero assolutamente ignaro, all’oscuro. Un mio amico, Fabrizio Onofri, mi fece incuriosire alla storia, studiai e poi andai in America e finalmente capii che trappola razzista era stata”. Realizzò dunque il film e vi mise tutta la sua “insofferenza per l’intolleranza” . Una caratteristica che si ritrova poi in tanti suoi film come “Giordano Bruno” o “Gli occhiali d’oro”. Ricorda ridendo che il primo produttore cui si rivolse pensava che Sacco e Vanzetti fosse una ditta di import-export, ma per fortuna dopo tanto girovagare parlò con il produttore Arrigo Colombo: “Rimase stupefatto al nome Vanzetti, lo vidi trattenere il fiato, e questo perché lui ebreo era fuggito dall’Italia nel 1938 ed era riuscito a imparare la lingua inglese leggendo le lettere che Vanzetti mandava al comitato di difesa in un inglese semplice e molto bello.. quindi era un suo idolo”. Insieme decisero di farlo, con molta fatica, ma nessuno si aspettava un tale successo, dovuto anche alla musica di Ennio Morricone con la collaborazione di Joan Baez e ai due meravigliosi attori Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla. “Con Volonté eravamo amici. Era un attore totale, quando interpretava un film diventava il personaggio di quel film di notte, di giorno, sempre. Quindi se interpretava un personaggio negativo tale rimaneva anche nella vita reale: entrava nel personaggio a gamba tesa, poi quando terminava il film era di nuovo lui. Se con Elio Petri, in “La classe operaia va in paradiso” era spietato con tutti, per fortuna con me ha interpretato due personaggi positivi, vittime non carnefici, quindi era buonissimo. Non dovevo dirgli nulla, prima studiavamo il personaggio insieme, discutevamo a lungo, e poi ogni girata era buona”. Ed ecco una chicca su Volonté: “Lui aveva letto che Vanzetti, che era scapolo, si prendeva cura di Sacco, molto più fragile, perché aveva invece moglie e figli, quindi per tutto il tempo del film Volonté si è comportato così con Cucciolla”.
Alla domanda a quale dei suoi film rimane più legato risponde: “L’Agnese va a morire” (1976) “per l’emozione che mi ha dato la partecipazione di tutti con affetto”. Era la prima volta che si parlava di una donna partigiana. Rimase colpito dalla storia narrata nel libro di Renata Viganò “perché si parlava poco, anzi mai delle staffette partigiane, e sono state indispensabili, soprattutto nelle valli del Comacchio, territorio pianeggiante e sconfinato. Se non ci fossero state le staffette a portare armi, cibo, messaggi, sarebbe stato un disastro”. Ad interpretarlo la bravissima attrice Ingrid Thulin e intorno a lei “sono venuti quasi gratuitamente” un gruppo di amici: Stefano Satta Flores, Flavio Bucci, Michele Placido, Ron, Massimo Girotti e tanti altri, “per stare insieme in quel film. È un film di tutti noi, è un film della gente di Romagna che ci ha aiutato veramente a farlo”. Ma è affezionato anche a “Marco Polo” (1982), un film per la televisione. Per farlo, con la troupe ha girato per settantaquattro paesi: “Quando vado in Cina mi chiamano ancora Marco Polo”. “ Io ho lavorato sempre un po’ fuori anche quando facevo il collaboratore con Pontecorvo – con lui andai in Jugoslavia e ad Algeri. Mi piace girare il mondo, forse perché sono nato a Genova in una pianura liquida”. Ha girato anche due film in America: “Gli intoccabili” (1969) e “Ad ogni costo” (1967), utilizzando grandi attori: “Però facevo tutto questo per farmi notare, far vedere che riuscivo anche nei film di cassetta, così poi potevo fare film come volevo io”. Ma oggi si lamenta che non esista più questo scambio, non ci siano neanche più co-produzioni e i registi italiani rimangano coi loro film in Italia, è come se non ci fosse più tanto coraggio. Ma non vuole pensare che il cinema sia in crisi: “Non è un attimo fuggente – dice – e non lo è mai stato (quando fece “Achtung! Banditi!” a Genova, il macchinista gli disse: “ Ah Giulià, lascia perde, il cinema è in crisi”). I momenti di grande difficoltà e di crisi noi li abbiamo sempre superati per la capacità di fare i film, per la creatività, la follia meravigliosa dei nostri grandi maestri e quindi siamo riusciti a sopravvivere. Adesso bisogna continuare come abbiamo sempre fatto. Ce la faremo perché non siamo i soli a passare questo momento; i registi in Italia ci sono e sono bravi.” È una persona dalla lunga vita Giuliano Montaldo, adesso ha solo il progetto di pensare a sé stesso.
La sua città natia, Genova, store gli è sempre mancata, ne parla con nostalgia: l’aveva lasciata con quei portici sotto i quali sorgevano ben dodici sale di cinema ed ora non ce n’è più neanche uno; come capita a Roma d’altronde, sale storiche che chiudono. Montaldo iniziò come attore in “Achtung! Banditi!” (1952) di Carlo Lizzani. Questo nome gli provoca un gran dolore a causa della recente scomparsa: “Per Lizzani ho una devozione, era un uomo saggio, un signore, un uomo colto, uno scrittore, uno storico, non solo di cinema, ma del nostro modo di vivere di questo secolo. Era un uomo straordinario, non l’ho mai visto arrabbiato, sempre molto ironico, molto ottimista… Un grande fratello, un grande padre…pensare che avevamo un appuntamento qualche giorno dopo…”
Il suo primo film come regista fu “Tiro al piccione” (1962), un film coraggioso, anticonformista: “Ma il piccione ero io!”. Quando fu presentato al Festival di Venezia le critiche furono aspre perché allora non si poteva neanche immaginare un racconto su un fascista, erano tempi ancora rigorosissimi. Narrava la storia tratta dal libro di Giose Rimanelli, la sua biografia: nato e cresciuto in scuola fascista, dopo l’8 settembre aveva aderito alla Repubblica Sociale, in cui visse un’esperienza orrenda: “Si rende conto della brutalità, della violenza, e solo alla fine capisce che la patria è dall’altra parte e non dalla sua . Ho creduto che fosse giusto raccontare anche chi è stato vittima e non ha commesso un crimine ed ha sbagliato. Non mi sono mai rifiutato di stringere loro la mano….lì per lì la ferita delle critiche fu dolorosa… ma sono cose che capitano nella vita…poi sono venuti altri film, altri successi…”
Di sicuro un successo è stato “Sacco e Vanzetti” (1971): “Ci misi tre anni a convincere un produttore a fare questo film ambientato in America”. Di Sacco e Vanzetti non si sapeva niente in Italia, all’epoca in cui si svolgono gli avvenimenti c’era il fascismo e molti non sapevano neanche della loro esistenza, “Non c’era un libro, niente, io stesso ero assolutamente ignaro, all’oscuro. Un mio amico, Fabrizio Onofri, mi fece incuriosire alla storia, studiai e poi andai in America e finalmente capii che trappola razzista era stata”. Realizzò dunque il film e vi mise tutta la sua “insofferenza per l’intolleranza” . Una caratteristica che si ritrova poi in tanti suoi film come “Giordano Bruno” o “Gli occhiali d’oro”. Ricorda ridendo che il primo produttore cui si rivolse pensava che Sacco e Vanzetti fosse una ditta di import-export, ma per fortuna dopo tanto girovagare parlò con il produttore Arrigo Colombo: “Rimase stupefatto al nome Vanzetti, lo vidi trattenere il fiato, e questo perché lui ebreo era fuggito dall’Italia nel 1938 ed era riuscito a imparare la lingua inglese leggendo le lettere che Vanzetti mandava al comitato di difesa in un inglese semplice e molto bello.. quindi era un suo idolo”. Insieme decisero di farlo, con molta fatica, ma nessuno si aspettava un tale successo, dovuto anche alla musica di Ennio Morricone con la collaborazione di Joan Baez e ai due meravigliosi attori Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla. “Con Volonté eravamo amici. Era un attore totale, quando interpretava un film diventava il personaggio di quel film di notte, di giorno, sempre. Quindi se interpretava un personaggio negativo tale rimaneva anche nella vita reale: entrava nel personaggio a gamba tesa, poi quando terminava il film era di nuovo lui. Se con Elio Petri, in “La classe operaia va in paradiso” era spietato con tutti, per fortuna con me ha interpretato due personaggi positivi, vittime non carnefici, quindi era buonissimo. Non dovevo dirgli nulla, prima studiavamo il personaggio insieme, discutevamo a lungo, e poi ogni girata era buona”. Ed ecco una chicca su Volonté: “Lui aveva letto che Vanzetti, che era scapolo, si prendeva cura di Sacco, molto più fragile, perché aveva invece moglie e figli, quindi per tutto il tempo del film Volonté si è comportato così con Cucciolla”.
Alla domanda a quale dei suoi film rimane più legato risponde: “L’Agnese va a morire” (1976) “per l’emozione che mi ha dato la partecipazione di tutti con affetto”. Era la prima volta che si parlava di una donna partigiana. Rimase colpito dalla storia narrata nel libro di Renata Viganò “perché si parlava poco, anzi mai delle staffette partigiane, e sono state indispensabili, soprattutto nelle valli del Comacchio, territorio pianeggiante e sconfinato. Se non ci fossero state le staffette a portare armi, cibo, messaggi, sarebbe stato un disastro”. Ad interpretarlo la bravissima attrice Ingrid Thulin e intorno a lei “sono venuti quasi gratuitamente” un gruppo di amici: Stefano Satta Flores, Flavio Bucci, Michele Placido, Ron, Massimo Girotti e tanti altri, “per stare insieme in quel film. È un film di tutti noi, è un film della gente di Romagna che ci ha aiutato veramente a farlo”. Ma è affezionato anche a “Marco Polo” (1982), un film per la televisione. Per farlo, con la troupe ha girato per settantaquattro paesi: “Quando vado in Cina mi chiamano ancora Marco Polo”. “ Io ho lavorato sempre un po’ fuori anche quando facevo il collaboratore con Pontecorvo – con lui andai in Jugoslavia e ad Algeri. Mi piace girare il mondo, forse perché sono nato a Genova in una pianura liquida”. Ha girato anche due film in America: “Gli intoccabili” (1969) e “Ad ogni costo” (1967), utilizzando grandi attori: “Però facevo tutto questo per farmi notare, far vedere che riuscivo anche nei film di cassetta, così poi potevo fare film come volevo io”. Ma oggi si lamenta che non esista più questo scambio, non ci siano neanche più co-produzioni e i registi italiani rimangano coi loro film in Italia, è come se non ci fosse più tanto coraggio. Ma non vuole pensare che il cinema sia in crisi: “Non è un attimo fuggente – dice – e non lo è mai stato (quando fece “Achtung! Banditi!” a Genova, il macchinista gli disse: “ Ah Giulià, lascia perde, il cinema è in crisi”). I momenti di grande difficoltà e di crisi noi li abbiamo sempre superati per la capacità di fare i film, per la creatività, la follia meravigliosa dei nostri grandi maestri e quindi siamo riusciti a sopravvivere. Adesso bisogna continuare come abbiamo sempre fatto. Ce la faremo perché non siamo i soli a passare questo momento; i registi in Italia ci sono e sono bravi.” È una persona dalla lunga vita Giuliano Montaldo, adesso ha solo il progetto di pensare a sé stesso.