Consob, con la crisi Borsa Italiana ha bruciato 460 miliardi, pari a oltre il 28% del Pil

consobE’ impietoso il quadro che la Consob, l’Authority che vigila sui mercati, ha redatto sulla salute del mercato italiano. Dal 2007 ad oggi, l’indice è passato dal valere il 47,8% del Prodotto interno lordo al 28,6% attuale. Tononi: “Le aziende non si quotano perché preferiscono l’opacità.

Avrebbe dovuto essere un volano per le industrie. Invece la Borsa Italiana continua a essere un luogo dal quale, se possibile, è meglio stare lontani. Da sei anni a questa parte, da quando la crisi ha avvinghiato l’Eurozona, la capitalizzazione della Borsa in Italia si è quasi dimezzata: dal 47,8% del Pil del 2007 al 28,6% alla fine dello scorso anno quando si confrontava con il 57% dello stesso rapporto in Francia e con il 42% in Germania. Oggi il mercato vale 460 miliardi di euro (Ftse Italia All share) e ne ha bruciati altrettanti. Numeri impietosi messi in rilievo dalla Consob che ha iniziato a tirare le somme del progetto “Più Borsa” lanciato dall’autorità di Via Martini guidata da Giuseppe Vegas. Il progetto mira a favorire una convergenza di interessi attorno alla quotazione in Borsa. Dai tavoli tecnici del progetto sono emersi, tra i vari problemi, gli alti costi diretti per la quotazione ma anche gli indiretti: il mantenimento dello status di quotata può costare oltre 3 milioni l’anno. L’operazione di per sé costa tra 600mila euro e 8 milioni di spese organizzative e di documentazione, cui si somma un corrispettivo tra l’1,8 e il 4,5% del valore dell’offerta per spesare i servizi di collocamento.
“Per molte aziende l’opacità è meglio della trasparenza e l’assetto casalingo è preferito alla corporate governance”, ha sottolineato il presidente di Borsa Italiana Massimo Tononi che ha illustrato la “arretratezza culturale” dell’imprenditoria italiana, allergica alla quotazione in Borsa, parlando al Seminario celebrativo del 40mo anniversario della Consob. Tononi ha detto che “la carenza di capitali non è legata solo alla carenza dell’offerta, ma anche a quella della domanda: le imprese sono sottocapitalizzate perché preferiscono questo aspetto rispetto alla perdita del controllo e perchè hanno una naturale diffidenza verso gli investimenti esterni”. Insomma, ha concluso, si può parlare proprio di “una arretratezza culturale del nostro tessuto industriale”.

Tra le industrie “allergiche” al mercato, ci sono soprattutto le Pmi che pure costituiscono la stragrande maggioranza del tessuto produttivo italiano. La percentuale di Piccole e medie imprese sul totale delle non finanziarie quotate in Borsa è solo al 61%, rispetto al 96% rappresentato nel totale del mondo imprenditoriale. Eppure l’incapacità di finanziarsi è alta: i dati mostrano che la leva finanziaria delle imprese italiane è al 48%, contro il 42% della Germania e il 34% della Francia. Ma l’esposizione è tutta verso le banche, pressoché assenti le altre fonti di finanziamento: il 66,5% dei debiti finanziari delle imprese italiane è con gli istituti, si scende sotto il 30% in Regno Unito e Usa.

Così dopo l’ultima celebre fuga, quella di Fiat, la Consob ha deciso di lavorare per introdurre anche in Italia il voto maggiorato, già introdotto con il dl Competitività dalla politica. L’Authority avvierà una consultazione pubblica con la bozza del nuovo regolamento emittenti, che recepirà le novità in materia di voto. Il decreto Competitività, varato l’estate scorsa, hanno ricordato i funzionari Consob, ha previsto per tutte le società (quotate e non) la possibilità di emettere azioni a voto maggiorato. Questa non è una nuova distinta categoria di azioni; se previsto dallo statuto il diritto al voto maggiorato spetta a tutte le azioni detenute per un congruo periodo di tempo (almeno 2 anni) da un medesimo azionista e a tutti gli azionisti che ne facciano richiesta. Il decreto competitività ha modificato un articolo del Tuf e delegato alla Consob le disposizioni attuative.

Fonte: La Repubblica
Share
Share
Torna in alto