(di Elisabetta Tola, unhealthy Wired) Mentre i paesi in via di sviluppo accelerano sul digitale grazie a investimenti e nuove reti mobili, il nostro paese segna ancora il passo. La scomessa ora è nelle mani dell’Agenzia per il digitale. Ancora una volta l’Italia è in fondo alla graduatoria. L’abbiamo già visto con scuola, trasparenza, opportunità di genere. E, purtroppo, lo facciamo anche parlando di economia digitale, come attesta l’ultimo rapporto Ocse che proprio dal settore dell’ICT parte, misurando e confrontando la capacità di innovazione digitale delle economie del mondo.
“Measuring the digital economy: a new perspective”, pubblicato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo l’8 dicembre scorso, non lascia spazio a interpretazioni. In un quinquennio praticamente a crescita zero globalmente, dice l’Ocse, lo sguardo sul futuro viene dalla misura del ruolo della rete nello sviluppo economico. E così, mentre a Parigi si celebra LeWeb, convention assai patinata che si pone come obiettivo il “making today’s trends tomorrow’s opportunities”, e cioè il rendere trend di oggi le opportunità del domani, cui partecipano “innovatori, visionari, imprenditori, leaders” o addirittura, come indicato sul sito dell’evento, veri e propri “rivoluzionari”, l’Ocse ci riporta a terra con numeri e dati che fotografano in modo molto chiaro la situazione reale. Che, perlomeno per quanto ci riguarda, è ben lontana dall’essere soddisfacente e richiede ancora molti investimenti, sia sul piano infrastrutturale che su quello, certamente più complesso e strategico, culturale. L’Italia è infatti spesso citata come termine di paragone poco lusinghiero nell’efficace video con cui l’Ocse decide di riassumere, in forma grafica, i principali dati presentati nel rapporto.
Se allarghiamo lo sguardo a tutti i paesi Ocse vediamo che la connessione, l’uso della rete Internet e perfino l’accesso alla banda larga sono aumentati in modo massiccio negli ultimi anni: tra il 2005 e il 2013 si è passati da poco meno del 60% degli adulti online (16-74 anni) a oltre l’80%. Nell’arco dell’ultimo quinquennio sono più che raddoppiate le sottoscrizioni a contratti di accesso alla rete in banda larga ovunque, dai 250 milioni del 2008 agli oltre 850 della prima metà del 2013.
Ma già qui ecco il primo differenziale: se in Lussemburgo, Olanda e in tutti i paesi del Nord Europa oltre il 90% della popolazione è online, in Italia, Grecia, Messico e Turchia si scende a sotto il 60%. La forbice si allarga anche di più se ci si limita la fascia di età più alta, quella tra i 55 e i 74 anni: oltre il 75% di queste persone è ben connessa nei paesi nordeuropei contro meno del 10% in Messico o in Turchia. Complessivamente però le distanze vanno restringendosi, man mano che aumenta la popolazione nativa digitale mentre si riducono i costi di connessione e aumentano le possibilità di accesso da dispositivi mobile. Secondo l’Ocse, l’aumento delle connessioni globali da tutti i dispositivi connessi a Internet a livello familiare dovrebbe passare dal dato attuale, 1 miliardo e 700 milioni, a ben oltre i 14 miliardi entro il 2022.
Un elemento fondamentale, comunque, lo fa la composizione demografica di un paese. Il dato più interessante infatti riguarda senza dubbio l’Africa sub-sahrariana, dove si è passati da 14 milioni di persone connesse via mobile nel 2010 a oltre 117 milioni nel 2013. La proiezione per il 2014 è di arrivare oltre i 170 milioni. Segno che l’Africa si sta rapidamente spostando verso una intensificazione delle economie digitali e lo sta facendo (anche) grazie allo sviluppo tumultuoso delle reti mobili e a una popolazione in continua crescita, il che significa molti giovani interessati a sfruttare le opportunità di crescita e connessione globale.
Tanto più è scarso lo sviluppo di infrastrutture per la rete fissa, tanto più il mobile prende piede. Anche nei paesi nordici, in Europa e in America, aumenta il traffico su tablet del 10%. Ma sono proprio i paesi del Sud, in Africa e in Asia, a fare la differenza: qui gli accessi registrati in rete da telefoni cellulari (e tablet) sono aumentati dal 15% a oltre il 40% negli ultimi due anni. Un esempio chiaro viene dai siti che hanno un enorme numero di accessi e che rendono pubblici i propri dati: Wikipedia, ad esempio, è passata da 1 miliardo di visite mensili da tablet e smartphone a inizio 2011 a oltre 4 miliardi al mese alla fine del 2013. Le visite da mobile contano per il 20% del traffico totale dell’enciclopedia online. Ma l’elemento più interessante è che questo aumento di traffico avviene su pagine non in lingua inglese. Tanto che recentemente il fondatore e principale portavoce di Wikipedia, Jimmy Wales, ha dichiarato che è loro interesse curare sempre più le pubblicazioni in altre lingue, soprattutto in quelle del paesi del Sud del mondo.
In termini di sviluppo economico il dato forse più rilevante è quello della resilienza dell’economia digitale alla crisi globale che ormai persiste da anni su tutto il pianeta. La produttività nel settore dell’ICT è più alta del 60% rispetto al totale dei settori dell’economia. Il settore ICT insomma produce molto più valore aggiunto, mantiene in modo più stabile i posti di lavoro e le nuove imprese ICT hanno maggiori probabilità di sopravvivenza rispetto alle imprese nei comparti dei servizi e delle imprese più tradizionali.
Un tasto dolente riguarda però il lato risorse umane: se infatti è vero che le imprese nel settore ICT consentono migliore probabilità di sviluppo, successo e quindi lavoro, è altrettanto vero che oggi, perlomeno nei paesi europei, oltre il 60% dei lavoratori ritengono di non avere sufficienti competenze tecnologiche per trovare un nuovo lavoro. Se poi ci si limita ad analizzare la quota parte della popolazione a basso titolo di studio (ed è bene forse ricordare che in Italia il 25% circa della popolazione che oggi è tra i 18 e i 24 anni smette di studiare dopo la terza media) la percentuale delle persone inadatte a trovare un lavoro in un settore connesso all’economia digitale sale all’80%. Contro meno del 40% di quelli con una laurea. E a proposito di laureati, nel corso del 2012 solo il 3% ha scelto una carriera di studi nel settore ICT che pur rappresenta un jolly quasi sicuro per trovare lavoro nel complesso mercato odierno.
Il grafico interattivo pubblicato dall’Ocse permette di confrontare le performance dei singoli paesi in termini di connessione e di attività online in base all’età, al grado di istruzione e al tipo di operazioni svolte online.
Dal punto di vista culturale permangono ancora molte differenze nel rapporto con la rete. Se è vero che gli inglesi, i danesi e gli olandesi comprano volentieri beni online (oltre il 75% della popolazione ha effettuato regolarmente acquisti online nel 2013), gli italiani lo fanno molto meno (meno del 20%, un dato comparabile a quello della Turchia e del Cile). Se per finlandesi, norvegesi, olandesi e svedesi è normale gestire i propri conti bancari online (tra 80 e 90% della popolazione usa l’home banking), gli italiani stanno ben sotto la media europea, in compagnia dei portoghesi, ungheresi, turchi e greci con meno del 40% di correntisti in home banking.
Ci sono poi delle vere e proprie stranezze: oltre il 60% della popolazione dei paesi Ocse ha partecipato attivamente alle interazioni sui social network, nel corso del 2013. Ma solo il 30% usa la rete Internet per interloquire con le pubbliche amministrazioni, per esempio compilando i moduli online e gestendo le proprie pratiche attraverso la rete. La rete è dunque spesso usata più nell’ambito dell’intrattenimento e della socialità che non in quello, altrettanto utile ed economicamente interessante, dei servizi e dei rapporti con le istituzioni.
Rimaniamo, soprattutto in Italia, sostanzialmente diffidenti nei confronti della rete. Ma al tempo stesso non adottiamo nessuna contromisura: siamo infatti perfettamente in linea con i comportamenti poco sicuri che caratterizzano la stragrande maggioranza dei navigatori in Internet nel mondo. Nel corso del 2013 solo un terzo degli utenti ha cambiato le impostazioni di sicurezza dei propri browser per navigare in modo più controllato e consapevole. E solo il 9% degli utenti adulti nell’Unione Europea usa sistemi di parental control o filtri per proteggere i propri figli durante la navigazione online. In Italia, dove ci lanciamo spesso in lunghe disamine sui pericoli della rete, questa percentuale è addirittura sotto il 5%.
Insomma, il lavoro da fare per promuovere una vera economia digitale è certamente di natura infrastrutturale ed economica. E anche per questo qui a Wired siamo molto attenti ai programmi e alle attività dell’Agid, l’Agenzia per l’Italia digitale, che dovrebbe finalmente promuovere una transizione seria del nostro paese verso il digitale. Ma il lavoro più profondo va fatto ancora una volta a livello culturale, per non perdere le opportunità di sviluppo di una solida economia digitale e, al tempo stesso, per imparare a gestire in modo consapevole e sano gli strumenti, le applicazioni e le nostre attività quotidiane online.