Tv locali, l’ultimo far west troppe antenne e frequenze mentre spot e share crollano

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televisioneNON SI SA NEMMENO QUANTE SIANO ESATTAMENTE, shop GLI ELENCHI DI MINISTERO E AGCOM NON COLLIMANO. PER DUE VOLTE LO STATO HA DATO LORO CONCESSIONI PER RECUPERARLE SUBITO DOPO CON INDENNIZZI. E DEVONO LASCIARE ALTRO SPAZIO ALLA TELEFONIA MOBILE

Le tv locali sono lo specchio di un certo modo di governare l’Italia. Sono un caos, un ginepraio inestricabile in cui non c’è alcuna certezza. Quante sono? Forse 480. O almeno questo è l’ultimo numero noto nel 2012. In calo dalle quasi 600 del 2005, ma attenzione ai numeri: nel 2012 si era quasi al termine della transizione al digitale, che moltiplicando i canali per ogni frequenza, ha fatto portato il numero dei canali locali sopra la bella cifra di 3 mila. Troppi canali e troppe frequenze occupate. Tanto più che per fine anno le locali della fascia adriatica dovranno spegnere le frequenze che disturbano quelle di Croazia e Albania. Una decina di tv pugliesi sono a rischio (ma lo Sblocca Italia propone ora una proroga fino ad aprile). Entro i prossimi due-tre anni, find poi, lo stesso avverrà sul Tirreno per le interferenze con la Corsica e poi in Sicilia dove molte delle 130 emittenti locali trasmettono abusivamente su frequenze assegnate ai paesi della sponda sud del Mediterraneo. E poi entro il 2022 si dovranno liberare altre frequenze per assegnarle alla telefonia mobile. Meno spazio nell’etere ma anche nel mercato: i ricavi pubblicitari sono in calo, lo share pure, i finanziamenti pubblici anche: dagli 85 milioni del 2012 si è passati ai 60 dell’anno scorso e ai 55 di quest’anno. Ripartiti poi in modo confuso e inefficace, con ampi margini per contestazioni, continui ricorsi ai Tar e anche qualche truffa, tanto i controlli sono minimi. Ce n’è abbastanza perché si cominci a cercare di fare ordine. It Media Consulting ha appena presentato uno studio dedicato alla situazione nel Lazio ma che ha ripreso e rielaborato dati nazionali. Già, prescription rielaborato: perché il caos nasce a livello centrale. Non esiste un elenco delle tv locali ma bisogna dedurli dal Roc, il Registro degli Operatori della Comunicazione, tenuto dal ministero dello Sviluppo, e da quelli dell’Ag-Com che sono il catasto delle frequenze, l’elenco per l’Lcn (la graduatoria per l’assegnazione delle posizioni sui telecomandi, peraltro paralizzata da tre anni), la graduatoria derivante dalle singole graduatorie regionali per l’assegnazione dei contributi pubblici all’editoria (graduatoria assegnata ai Corecom, i Comitati regionali per le comunicazioni) e altri elenchi ancora, specifici per l’assegnazione di altri fondi. Il fatto che molte società siano piccolissime, spesso imprese familiari con meno di dieci dipendenti, fa il resto. A volte uno stesso editore ha “gemmato” più srl ognuna delle quali è una singola emittente tv. E la legge non aiuta. «Nell’ultimo bando del Mise per l’assegnazione dei fondi pubblici non si chiarisce tra impresa e emittente – spiega Michele Petrucci, presidente del Corecom Lazio e vicepresidente del Coordinamento di tutti i Corecom – Per cui noi, dovendo stilare la graduatoria in base alla quale il ministero assegna i fondi, non sappiamo se certi requisiti, i dipendenti, il numero di giornalisti, i requisiti di fatturato, vadano ascritti all’emittente o all’editore. Nel primo caso un editore può ricevere tanti contributi quante sono le sue emittenti. Serve chiarezza e soprattutto servono criteri di assegnazione più selettivi, a vantaggio della qualità e delle società che investono di più sui contenuti». E’ per questo che il Corecom Lazio ha commissionato a It Media uno studio per scattare una fotografia più netta del settore a partire dalla quale iniziare a pensare una risistemazione. Perché oggi il rischio è che in questo caos a chiudere siano le tv maggiori, quelle più strutturate, che producono più contenuti locali veri e si salvino invece le micro tv a gestione familiare. Perché pur nel caos il settore ha espresso realtà e marchi ormai consolidati. Sono nomi come Telelombardia, Antenna 3 o Telenova a Milano e regione, Canale Italia di Lucio Garbo in Veneto, ma con forte presenza in altre regioni, così come il consorzio 7Gold che fa capo a Giorgio Tacchino. In Puglia c’è Telenorba dei Montrone, in Sicilia le emittenti che fanno capo a Mario Ciancio. Nel Lazio due emittenti, T9 e Tr56 sono del gruppo Caltagirone. Sono però tutte in crisi, tutte hanno in atto cassa integrazione e mobilità. Qualcuno, come la storica tv romana SuperTre della famiglia Rebecchini ha già spento le antenne. «Tutte assieme hanno gli stessi dipendenti di Mediaset, fanno un decimo del suo fatturato e un centesimo dei suoi ascolti», è l’azzeccata sintesi che gira. «I ricavi sono il fattore critico – spiega Augusto Preta, direttore di It Media – La pubblicità che a livello nazionale tra il 2008 e il 2012 è scesa dll’11,7% nelle locali è crollata del 37,5%, e nel Lazio ancora peggio, quasi il 50%. Nello stesso tempo i costi sono saliti del 13% a livello nazionale e del 75% nel Lazio, dove ci sono 49 editori, e ben 164 canali. Gli ascolti, sui canali rilevati dall’Auditel, scendono: sono passati, sul totale nazionale, dallo 0,16% del 2007 allo 0,03% del 2012. A livello locale e soprattutto sulle news, finora il vero punto di forza di queste tv, si sente fortissima la concorrenza di Internet. Ma da parte degli editori non abbiamo registrato strategie importanti per sviluppare la loro presenza sul Web». Eppure ci sono marchi forti. I tg di emittenti locali come Telenorba in Puglia o Rttr o Tca in Trentino fanno manbassa di ascolti sui rispettivi share regionali. Ma la gran massa fatica. Si ipotizza che ci siano emittenti che fanno fino al 90% dei loro ricavi con il contributo pubblico. Che non è proprio distribuito a pioggia ma quasi: l’80% va al primo 37% delle emittenti regionali in base alla graduatoria, il 20% a tutti. Poiché i primi requisiti sono i fatturati e il numero di dipendenti, operazioni giuridicamente lecite ma opache nella sostanza sono molte: dai fatturati gonfiati tra emittenti dello stesso editore che si comprano e vendono contenuti tra di loro, a una pletora di dipendenti amministrativi rispetto ai tecnici e ai giornalisti. Quando non invece, come vogliono le leggende di settore, dipendenti assunti dalle emittenti ma che svolgono i loro compiti per le altre attività del piccolo editore locale. In questo caso sarebbe una vera e propria truffa, ma con i controlli fatti solo sulla carta è quasi impossibile da scoprire. Come è impossibile scoprire chi occupa davvero uno spezzone locale di frequenza. Le locali dovrebbero avere un terzo del totale delle frequenze italiane. E poiché ci sono 25 frequenze nazionali, quelle locali dovrebbero essere non più di 13. Ma l’occupazione delle frequenze assegnate ad altri Stati ha fatto sì, per esempio, che nel Lazio le tv locali, come rileva ItMedia, utilizzino una ventina di frequenze. La storia del caos seguito alla digitalizzazione è più recente del vecchio Far West tv italiano, ma ha lo stesso dna. Nasce infatti nel 2010, quando il governo Berlusconi e il suo ministro delle Comunicazioni, Paolo Romani, permette alle tv locali di occupare le frequenze degli Stati esteri. Bisognava arrivare in fretta per dare certezze al mercato degli spot sulle tv nazionali che temeva una lunga transizione e le incertezze sui valori degli ascolti tra le regioni digitalizzate e quelle ancora no. E per tagliare corto sulle proteste delle locali che minacciavano blocchi e ricorsi, si scelse l’occupazione abusiva. Salvo poi “espropriarle” quando si trattò di liberare spettro per l’asta della telefonia mobile per l’Lte pagando però 174 milioni di indennizzi. E lo stesso sta di nuovo accadendo. L’anno scorso sono state infatti riconfermate concessioni ventennali agli attuali titolari di frequenze locali. E ora si dovrà pagare per riaverle. Il governo aveva messo nello Sblocca Italia 20 milioni, che, per le proteste delle associazioni, in testa la Aeranti-Corallo, che rappresenta 330 emittenti, sono già quasi certamente saliti a 50. Infine un altro nodo mai affrontato. Le tv hanno messo le frequenze a patrimonio: sfilargliele costringerebbe la maggior parte di loro a portare i libri in tribunale. E per di più il contributo statale è legato alla frequenza e non alla attività editoriale. Ragion per cui nessuno le molla. E questa è anche una barriera formidabile all’ingresso di nuovi editori. Ora la pasticciata nuova norma di AgCom che sposta di canoni di concessione per le tv sugli operatori di rete potrebbe essere un incentivo per gli editori a separarsene, anche se per le locali la norma ha creato lo stesso sconquasso denunciato a livello nazionale: lo sconto concesso a Mediaset e Rai ha decuplicato il prelievo sugli altri operatori di rete. «Vedo una sola via d’uscita – spiega Antonio Sassano, docente di Ingegneria a Roma ma soprattutto uno dei nostri massimi esperti in tema di frequenze – Non solo assegnare alle locali le frequenze non attribuite nella recente gara dell’ex beauty contest, come già pensa il governo, ma andare oltre e assegnarle a gara ad operatori di rete regionali per ospitare fornitori di contenuti locali da selezionare anche in questo caso, con una gara di evidenza pubblica. L’unico modo per valorizzare l’informazione locale di qualità e spingere gli editori a produrre programmi in grado di conquistare pubblico e non solo di occupare spazio». E chiunque abbia fatto zapping sul telecomando oltre i primi 60 canali sa di cosa parla. Sopra, uno studio tv. Oggi i fondi pubblici sono distribuiti secondo criteri poco efficaci e non aiutano il settore a selezionare gli operatori che investono di più nella produzione di contenuti locali di qualità e questo impedisce anche l’ingresso di nuovi operatori.

di Stefano Carli

Affari e Finanza