LA RISTRUTTURAZIONE PARTE TARDI RISPETTO A GERMANIA E FRANCIA E SAREMO NOI A DOVER PAGARE IL CONTO FINALE DELLA SOVRACAPACITÀ PRODUTTIVA EUROPEA. ORA DIPENDIAMO DAI PIANI DEI GRUPPI ESTERI E LORO STABILIRANNO IL TOTALE DEGLI ESUBERI
Terni ai tedeschi di Thyssen, recipe Piombino agli indiani di Jindal, cheap Taranto (in futuro) agli indiani di ArcelorMittal come anche Genova. L’acciaio italiano rimane a Trieste dove Arvedi acquisterà la ex Lucchini. Poi, prescription certo, ci sono i forni elettrici della pianura padana. Ma il piano acciaio che sta mettendo a punto il governo per salvare produzioni e posti di lavoro, è sostanzialmente un piano che consegna agli stranieri le parti vitali del sistema siderurgico nazionale. Una debacle dal punto di vista strategico: l’industria dell’acciaio è quella che fa girare buona parte del settore manifatturiero italiano. E c’è addirittura chi rimpiange i Riva. E’ accaduto il 2 settembre scorso, alla festa dell’Unità di Genova. Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, ha detto proprio così: «Fino al 2012 gli italiani in grado di gestire l’Ilva c’erano ed erano i Riva. In 16 anni non hanno mai chiesto soldi allo Stato e hanno sempre dato reddito ai lavoratori». Il fatto che non abbiano investito abbastanza nella sicurezza degli impianti è evidentemente secondario. Il punto, anzi è proprio questo: nessun altro italiano oltre ai Riva è in grado di prendere il controllo del sistema siderurgico? L’unica eccezione, nello shopping di questi mesi, è il gruppo Arvedi di Cremona. Che il 12 settembre scorso ha firmato il contratto preliminare per acquistare la ferriera di Servola, vicino a Trieste, 480 dipendenti. L’investimento previsto è di 170 milioni. Per i primi tre anni continuerà a funzionare l’altoforno che produce ghisa e che il gruppo Arvedi utilizzerà per la sua produzione a Cremona. Nelle prossime settimane l’accordo dovrà essere perfezionato. Nei mesi scorsi il cavalier Giovanni Arvedi aveva annunciato ad Affari & Finanzala sua intenzione di produrre a Trieste «banda stagnata e l’acciaio magnetico al silicio per la produzione dei motori elettrici». Poi aveva aggiunto: «Il boccone più difficile da digerire è il salvataggio di Taranto ». Infatti ben più complessa è la situazione dell’Ilva. Taranto, in particolare, è il nodo decisivo, quello che condiziona il futuro di tutto il sistema. La recente concessione di un prestito ponte da 250 milioni ha consentito alla più grande acciaieria d’Europa di andare avanti per qualche mese, «ma certo, senza una soluzione strutturale, sarà molto difficile andare oltre la fine dell’anno», dice il direttore generale del ministero dello Sviluppo, Giampiero Castano, che in questi mesi ha tenuto il tavolo di crisi dell’acciaio in Italia. Il ministro Federica Guidi sta cercando di dare risposta a tutte le vertenze aperte nella siderurgia. Anche a ritmo ridotto Taranto continua a produrre circa 20 mila tonnellate di acciaio al giorno. Tra i pretendenti all’acquisto i favoriti sembrano, al momento, gli indiani di Arcelor- Mittal. Si attende però la presentazione di un piano industriale che dovrà essere approvato dal governo. Chi rileva l’acciaieria dovrà spendere i 1.600 milioni necessari ad adeguare l’impianto alle norme di sicurezza ambientale prescritanche te dall’Aia. L’acquisto dell’Ilva comporta anche la ristrutturazione di altre importanti realtà produttive come l’impianto di Genova, con i suoi 1.600 dipendenti, e quello di Novi Ligure (800). Tra i pretendenti di Taranto ci potrebbe essere anche l’altra cordata indiana, quella di Jindal, che ha presentato un piano per rilevare le acciaierie Lucchini di Piombino già ceduta a suo tempo ai russi di Severstal che poi se ne sono liberati. Il progetto degli indiani prevede di far funzionare subito i laminatoi e in futuro di realizzare un forno elettrico. Rimarrà spento invece il vecchio altoforno. Grazie a Jindal dovrebbe riprendere la produzione dei binari ferroviari, una delle specialità dell’impianto toscano. La ristrutturazione del porto (decisa dalla Regione Toscana nella speranza che potesse essere utilizzato per smantellare la Costa Concordia) servirà alla Jindal per spedire più rapidamente il prodotto finito. Il governo ha approvato un accordo di programma da oltre 200 milioni per insediare a Piombino anche altre aziende siderurgiche e trasformare il porto in un centro di demolizione delle navi militari. L’ultimo grande polo siderurgico in sofferenza è la Thyssen di Terni. Nei prossimi giorni azienda e sindacati si ritroveranno a Roma a trattare. Dopo una lunga riunione svolta la scorsa settimana il ministro Guidi ha ottenuto che la multinazionale tedesca ritirasse il progetto di tagliare 550 posti di lavoro su 2.800. L’azienda ha però confermato che intende comunque ridurre di 100 milioni all’anno i costi dell’impianto. La Thyssen di Terni era già stata venduta dai tedeschi ai finlandesi di Outokompu ma il passaggio è stato bloccato dall’Ue perché avrebbe violato le norme antitrust. Thyssen è tornata dunque proprietaria e ha promesso al governo di non vendere. Al termine di queste trattative (che si dovranno concludere tutte nei prossimi mesi) che cosa resterà del sistema siderurgico italiano? «Semplicemente, non sarà più italiano, almeno nella sua parte maggioritaria», osserva Roberto Crapelli, ad di Roland Berger Italia. Crapelli spiega che «la nostra siderurgia ha reagito con ritardo ai segnali che avrebbero imposto investimenti in produzioni ad alto valore aggiunto. Questa ristrutturazione è stata fatta in Germania, è avvenuta in Francia, anche con l’aiuto di capitali indiani, e noi arriviamo oggi». E’ evidente che chi arriva per ultimo nelle ristrutturazioni industriali finisce per pagare il conto per tutti. Questo significa che l’Italia si troverà a smaltire la sovracapacità produttiva anche per gli altri paesi europei? «Non è corretto parlare di sovracapacità », risponde Crapelli. E spiega: «Tutto dipende dal mercato di riferimento delle produzioni che si faranno in Italia. Fino a quando non avremo un quadro preciso dei prodotti non potremo dire se il sistema italiano è tarato in modo adeguato». Quel che è certo è che nel prossimo futuro «la nazionalità degli azionisti delle aziende siderurgiche italiane sarà in gran parte straniera». Quali conseguenze potranno avere i mutamenti prossimi sull’occupazione del settore? Rosario Rappa, segretario nazionale della Fiom spiega che «se le cose non andranno bene sono a rischio almeno 5-6.000 posti di lavoro diretti più un numero molto alto di indiretti». Se le cose andassero male infatti sarebbe difficile evitare i 500 licenziamenti già annunciati e poi ritirati dalla Thyssen a Terni, i 600 posti a rischio all’Ilva di Genova, i quasi 2.000 che a Piombino resterebbero senza lavoro se non partisse la fase due dell’intervento Jindal con il forno elettrico. Soprattutto, osserva Rappa, «nessuno è ancora in grado di dire quanti posti di lavoro verranno tagliati nel nuovo piano industriale per Taranto che dovrà essere presentato dai nuovi proprietari e approvato a Roma». Ancora una volta dunque è Taranto il cuore del problema. O se si vuole il cuore della soluzione. «Se non si trovasse una via d’uscita per lo stabilimento pugliese aggiunge Rappa – la questione non sarebbe solo quella, pur gravissima, dei posti di lavoro che si perdono ma quella, non meno grave, del futuro della stessa siderurgia italiana». Settimane decisive dunque. E sono gli indiani ad avere in mano la soluzione. Spinti dall’impetuosa crescita della loro economia nell’ultimo decennio sono diventati, con i cinesi, i principali produttori mondiali di acciaio. E ora investono le plusvalenze accumulate per fare shopping in Europa dove gli impianti sono tecnologicamente avanzati anche se necessitano di importanti capitali per la ristrutturazione. La filiera siderurgica italiana potrebbe dunque svegliarsi nel 2015 con una fisionomia radicalmente modificata. E i cambiamenti potrebbero riflettersi anche su un settore che per decenni è stato trainante come quello del tondino nel lombardo- veneto. I forni elettrici da rottame cominciano anche loro ad avvertire le conseguenze della crisi e rischiano di fare i conti con il problema della sovracapacità produttiva. Ma certamente questo sarà un problema più semplice da gestire di quelli attualmente sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. Un altoforno di un’acciaieria italiana: si sta cercando con difficoltà di salvare le produzioni di questo sofferto settore Le esportazioni siderurgiche italiane si erano riprese dopo la grande crisi, ma dall’anno scorso hanno cominciato nuovamente a scendere per il peggioramento economico complessivo.
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