E’ morta a Tel Aviv all’età di 72 anni Leah Rabin, vi proponiamo l’ultima intervista rilasciata alcune settimane fa a Cesare Lanza.
L’ultima intervista di Leah Rabin
«Arafat è un leader affidabile»
Parla la vedova del premier assassinato: «La pace con i palestinesi è indispensabile»
di CESARE LANZA
TEL AVIV — La signora Leah Rabin ci riceve nel suo piccolo studio al quindicesimo piano di un palazzetto di Tel Aviv. Occhi chiari, uno sguardo intelligente e acuto, molto gentile. Le pareti, ricoperte di quadri e fotografie, sono un omaggio determinato e minuzioso alla memoria del suo grande marito Ytzhak (“my husband” sono le due parole che ricorreranno più frequentemente nell’intervista), barbaramente ucciso in un attentato, nel 1995, da un terrorista ebreo, ultranazionalista.
E’ malata (come ricorda lei stessa, con grande dignità: ha scoperto alcuni mesi fa di essere aggredita da un tumore, spesso è a New York per le cure necessarie), ma affabile, disponibile. La conversazione si accende subito sulle sue opinioni sugli argomenti di maggior attualità: i negoziati di Camp David, il caso Haider in Europa.
«Come finirà? Mio marito ha dedicato la sua vita alla pace, io con lui e dopo di lui mi impongo di essere sempre fiduciosa. Ricordo il primo storico incontro tra Rabin e Arafat, nel ’93: quella sofferta stretta di mano… Un gesto diventato simbolico, per tutti coloro che desiderano accordi e stabilità definitiva».
Se suo marito non fosse stato ucciso?
«Non posso dire che, se mio marito fosse in vita, la pace oggi sarebbe raggiunta. Ma certo la sua morte ha bloccato il processo di pace, per anni».
Con Arafat lei ha mantenuto rapporti personali?
«Arafat è un uomo affabile, il vero leader dei palestinesi: senza alternative. I rapporti costruiti con mio marito erano segnati da stima reciproca e lealtà».
E dopo la morte di suo marito?
«Arafat è sempre affettuoso, gentile. Mi chiama “la mia sorellina”. Mi telefona sempre per gli auguri per le feste: al matrimonio di mio figlio ha inviato un regalo».
E in riferimento ai negoziati?
«Gli ho detto che Barak avrebbe potuto ricucire lo strappo provocato dalla gestione di Netanyahu. E sa cosa mi ha risposto? Mi ha chiesto: sai con chi avrei voluto trattare, dopo l’uscita di scena di Netanyahu? Con Rabin».
Dopo la scomparsa di suo marito, lei ha avuto dubbi, la tentazione di mettersi da parte?
«Io ho condiviso la missione di mio marito e non ho mai avuto, né avrò, alcun dubbio sull’importanza del traguardo da raggiungere. I palestinesi sono i nostri vicini di casa e la pace è indispensabile. Ytzhak fu il comandante supremo della guerra dei sei giorni, nel ’67, eppure il giorno successivo alla straordinaria vittoria militare chiese di andare come ambasciatore a Washington per avviare un processo di pace. Oggi, dopo la sua morte, io non ricopro alcuna carica politica, non posso decidere nulla, ma mi rendo conto continuamente della responsabilità che esercito sull’opinione pubblica. Il mio nome è un simbolo di pace e io faccio il possibile per onorarlo».
Parliamo di Haider. Da molti mesi lei ha espresso forti preoccupazioni sul leader della nuova destra in Austria.
«Ci sono ragioni precise. In Austria non è successo niente di simile a quanto si è verificato in Germania: il riconoscimento di colpe storiche, il pentimento verso l’antisemitismo. La Germania ha affrontato il passato: l’Austria, no. E Haider è un fascista pericoloso, molto pericoloso. Il mio appello a tutto il mondo civile è di fare il possibile, verso l’Austria, per ridimensionarlo».
Cosa significa, in concreto?
«Usare il “language of pocket”, il linguaggio della tasca, dei soldi: boicottaggi su tutto ciò che rappresenta vantaggi economici. Cominciando dall’iniziativa più semplice: non andate in Austria, non portate i vostri soldi in Austria per le vacanze e i divertimenti».
Sono affermazioni molto dure.
«L’Europa ha già sbagliato una volta. Quando nacque il fenomeno Hitler, gli europei lo sottovalutarono. Oggi è giusto muoversi, al primo segnale di allarme».
Com’era il rapporto con suo marito? Che cosa le ha dato?
«L’ho conosciuto quando ero una studentessa. Mi ha aiutato moltissimo. Mi ha dato fiducia e amore».
E lei, a lui?
«Cercavo di essere una coscienza critica, nei limiti del mio ruolo. Mi parlava di tutto, ma non sono mai entrata nelle grandi questioni internazionali o nelle decisioni del governo. Ci capivamo al volo. Quando Ytzhak teneva un discorso, cercava il mio sguardo e io gli esprimevo soddisfazione o preoccupazione. Lui non si risparmiava mai e io ho cercato di essergli sempre vicina. In tre anni di premiership non si è concesso un solo giorno di vacanza».
Un bilancio della sua vita. Rimpianti? Le è mancato qualcosa?
«No. Sono stata una donna privilegiata».
E c’è un orgoglio preciso?
«Abbiamo costruito la nostra patria. Era difficile, ma ce l’abbiamo fatta. Oggi gli ebrei non sono più erranti per il mondo: Israele esiste, è uno Stato sovrano. Abbiamo un’economia forte, abbiamo raccolto cinque milioni di ebrei provenienti da ogni angolo del mondo, appartenenti a religioni ed etnie diverse, con usanze e storie diverse, e conseguenti difficoltà. Ma ce l’abbiamo fatta».
Lei è seguita con molta simpatia in Italia, ha molti amici.
«Ho stima e riconoscenza per gli italiani. Dopo la tragedia del ’95, a Roma fu organizzato un memorabile evento per onorare la memoria di mio marito, come nessun altro ha fatto. Ho amici personali in tanti ambienti. Due nomi, tra tanti… Giancarlo Elia Valori, un manager prestigioso, importante per la vostra economia: spesso lo incontro in Italia. E Roberto Benigni».
Benigni?
«Sì. Il mio amore! A parte il suo film, che mi è piaciuto molto, è un personaggio divertente, irresistibile. Abbiamo partecipato a una manifestazione: volevo fargli uno scherzo, imitare Sofia Loren e gridare Robertoooo!, come la sera del premio Oscar. Ma lui mi ha anticipato: appena mi ha visto, ha gridato Leaaaaa!, mi è venuto incontro, mi ha preso in braccio e mi ha fatto volare in aria, senza tenere conto della mia età. E intanto rideva, incosciente, come fa sempre in queste situazioni. E io, e tutto il pubblico, con lui».