Nonostante la cautela nei giudizi, il nuovo corso pentaleghista non convince affatto Sala. In particolare nella componente grillina. Che come ha detto ieri dimostrerebbe ancora «un deficit di competenza» e di strategia. Senza contare che tutti i segnali lo portano a pensare che per motivi squisitamente politici non ci sia la volontà di valorizzare la Capitale del Nord: «sgarbi» come quello dei Giochi 2026 potrebbero ripetersi. Non è poi un caso che fin dal primo giorno Sala segnali che non gli sia mai arrivata una chiamata da Roma, o che pungoli di continuo al rispetto degli impegni economici previsti per opere considerate fondamentali come il prolungamento del metrò fuori dai confini cittadini. Sala si starebbe convincendo che senza un esecutivo «amico» (o comunque non ostile) la locomotiva-Milano rischia di frenare. E un altro mandato a gestire le sfide di una metropoli complessa potrebbe essere poco incisivo, senza una sponda all’esterno. Prima però vuole vederci chiaro. Gli scenari sono ancora fluidi. Vuole attendere, il 2020 appunto, alla vigilia delle elezioni in città.
Intanto proseguono le sue incursioni nella politica nazionale. Solo un mese fa, a un evento antirazzista si definì «l’anti Salvini». E spesso ha detto la sua sul Pd. È la parte di campo a cui Sala guarda: attende le evoluzioni al Nazareno, una possibile fase costituente nel partito e nel centrosinistra. Lo scenario giusto per la sua alternativa al fronte sovranista: quel «modello Milano» capace di attrarre oltre i soliti schemi. «Parliamo a noi stessi, non allarghiamo il consenso», è infatti la critica mossa ieri alla sinistra dalle pagine di Libero, giornale che parla a un altro popolo. Che ruolo avrà Sala, si vedrà. «Non è nelle sue corde fare il capopartito», chiarisce chi gli sta vicino, che ricorda: «Anche se la giacchetta da politico ormai se la sente comoda, lo spirito resta da civil servant».
Pierpaolo Lao, Corriere.it