Secondo lo storico dirigente Rai per quella generalista manca un progetto editoriale forte. Il revival delle vecchie trasmissioni? Mostra il fiato corto
Ormai vede poco la tv, ma la fantasia di Bruno Voglino, classe 1932, storico dirigente Rai, ha segnato generazioni di italiani, anche come docente di teorie e tecniche del linguaggio radiotelevisivo all’università di Padova oltre che come scopritore di talenti tra i quali Ric e Gian, Cochi e Renato, Paolo Villaggio, Enrico Montesano, Massimo Troisi, Carlo Verdone, Gianfranco D’Angelo, e in qualità di capostruttura di Raitre. Torinese doc, spirito libero, indomabile, si diverte a girare per Roma, prende l’autobus, è curioso come pochi, ha una memoria di ferro, evoca anni nei quali il piccolo schermo dominava su tutto: «Devo dire che da un po’ di tempo sono molti gli interessati a quello che ho fatto e non ho fatto. Mi invitano di qua e di là». Non poteva mancare al museo Boncompagni Ludovisi all’inaugurazione della mostra delle opere optical dell’amico Ferruccio Gard (1940), che oltre a essere uno degli ultimi esponenti degli anni d’oro di Novantesimo minuto, quando la trasmissione era un appuntamento imperdibile per gli amanti del calcio, è anche un geniale artista. E Voglino, tra gli «intrecci dinamici» di Gard, picchia duro sulla tv di oggi: sorridendo, sempre.
Domanda. Com’è la televisione nel 2018?
Risposta. È chiaro che usciamo da una catalessi che è durata tanto, un bel po’ di anni. C’è stato a un certo punto un crollo verticale, perché il famigerato duopolio in realtà economicamente ha rafforzato i due protagonisti della tv ma dal punto di vista dell’interesse socioculturale hanno patito tutte e due. E molto. Oggi per esempio Mediaset è come se non esistesse nel panorama radiotelevisivo: lo dico senza polemiche. E la Rai è in un momento un po’ strano perché è stata in catalessi pure lei, e molto, e la cosa è naturalmente grave, adesso non è che sia molto vivace, però qualche segnale sicuramente lo dà. A me personalmente dà fastidio tutto questo insistere sul revival delle vecchie trasmissioni, perché non si capisce se è uno sventolio di una bandiera aziendale, della serie «guardate come eravamo bravi», o proprio è fiato corto, incapacità di pensare una nuova televisione. Io non dico nulla, ma si può capire da che parte pencolo.
D. Pessimisti od ottimisti, allora?
R. Comunque qualche segnale lo dà. Però non c’è ancora un progetto editoriale coerente, compatto, ben indirizzato: non lo vedo. Perché ogni tanto hanno un soprassalto, come chi dorme che di colpo si sveglia e poi ricade in questo stato di torpore. Poi la situazione politica è inutile dire com’è Quindi riusciranno i nostri eroi eccetera eccetera eccetera a ridestarsi? Speriamo, ce lo auguriamo.
D. Quanta tv c’è nella giornata di Bruno Voglino?
R. Io ormai guardo poco la televisione perché vedo soltanto i telegiornali, soprattutto quello di Sky che è fatto benissimo, che fa cose, e questo mi indigna, che i telegiornali del servizio pubblico non fanno, e questo mi fa girare molto le scatole: mi complimento con Sky, ma mi rammarico per la distrazione, chiamiamola così, delle reti pubbliche, su molti argomenti. Argomenti scottanti, naturalmente.
D. Fabio Fazio su RaiUno?
R. Sì, fai la serata per Roberto Bolle è una bella iniziativa. Ogni tanto ci sono questi soprassalti, ma certo il progetto non c’è ancora. Dai corda ad Alberto Angela che è più bravo di Piero va benissimo. Lo dice Piero, quindi non è una mia maldicenza: Piero lo ha sempre detto, Alberto è più competente di me. Poi c’è qualche vecchio leone tipo Corrado Augias che i suoi spazi se li trova: si sa, l’uomo è di un’abilità diabolica, è un pesce che riesce a sopravvivere anche in assenza di ossigeno. Però manca l’ossigeno.
D. RaiTre?
R. Anche RaiTre qualcosa fa. Per anni RaiTre è stata colpevolmente una rete residuale, ma poi ha continuato a fare le cose che abbiamo fatto noi, non tiravano fuori un’idea neanche ad ammazzarli. Non so se riusciranno
D. Piero Chiambretti.
R. Io ricordo che molti anni fa quando aveva appena finito di fare Il Portalettere, Chiambretti aveva un problema, che lui stesso enunciava: diceva, ma io dopo che cosa faccio? E tutto quello che è venuto dopo quel periodo splendente effettivamente è una sua ricerca molto faticosa, e non sempre molto fruttuosa, diciamo. Io lo dico con l’affetto che provo per il ragazzo, ex ragazzo anche lui, se Dio vuole: il tempo passa anche per lui.
D. Ai giovani Chiambretti piace sempre.
R. Tra una balla e l’altra, sembra ieri, ma a Padova ho fatto 15 anni di docenza: quindi non un’esperienza passeggera. Ovviamente avevo a che fare con ragazzi di diciannove e vent’anni, cioè tutti ragazzi che non avevano mai visto il Chiambretti delle origini perché o non erano ancora neanche nati o se erano nati erano piccolissimi e a quell’ora erano già a nanna o comunque a guardare i cartoni animati o cose di questo genere. Quando io nel corso delle mie lezioni, molto ricche di citazioni di testi, tiravo fuori spesso qualche vecchia registrazione del Chiambretti glorioso degli inizi, i ragazzi che credevano di conoscere pienamente Chiambretti, perché si sa vanno a rovistare nelle teche, YouTube, rimanevano sconvolti. Perché la forza dirompente di quel progetto è stato Chiambretti che come un martello pneumatico è entrato dentro in pieno e ha assicurato la versione ludica di tutto quel progetto sul quale giocava la rete intera. Questo mi ha sempre fatto pensare quanto tempo è passato e come in realtà anche lui purtroppo ha dovuto pagare lo scotto del tempo che passa, e la chiusura di quella fucina. Perché poi se non ti danno l’acqua dove nuotare cosa fai? Non basta che te sei bravo: conta, certamente, che te sei bravo, ma alla fine, gira e rigira, la vera politica culturale non la fa tanto l’autore ma la fa l’editore. È l’editore che costruisce una civiltà di creativi. Così è.
Gianfranco Ferroni, Italia Oggi